"io decido X Albignasego" è il nome del movimento civico che vuol dare la parola ai cittadini di Albignasego, comune della provincia di Padova ... e non solo!

sabato 30 novembre 2013

Lessico del ben-vivere sociale / 9

Avvenire del 24 novembre 2013

I legami ci fanno ricchi

di Luigino Bruni

Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione. Se non avessimo iniziato a co-operare (agire insieme) la vita in comune non sarebbe mai iniziata, e saremmo restati evolutivamente bloccati alla fase pre-umana. Ma come spesso succede per le grandi parole dell’umano, anche la cooperazione è ad un tempo una e molteplice, spesso ambivalente, e le sue forme più rilevanti sono quelle meno ovvie. Tutte le volte che esseri umani agiscono insieme e si coordinano per raggiungere un risultato comune mutuamente vantaggioso, abbiamo a che fare con la cooperazione.

Un esercito, una liturgia religiosa, una lezione a scuola, un’impresa, l’azione di governo, un sequestro di persona, sono tutte forme di cooperazione, ma si riferiscono a fenomeni umani molto diversi tra di loro. Da ciò deriva una prima conseguenza: non tutte le cooperazioni sono cosa buona, perché ci sono cooperazioni che sebbene aumentino i vantaggi dei soggetti coinvolti peggiorano il bene comune, perché danneggiano altri al di fuori di quella cooperazione. Per distinguere la buona dalla cattiva cooperazione è necessario innanzitutto guardare agli effetti che quella cooperazione intenzionalmente produce sulle persone esterne a quella cooperazione.

Lungo la storia, le teorie politiche ed economiche si sono suddivise in due grandi famiglie. Quelle che partono dall’ipotesi che l’essere umano non è naturalmente capace di cooperare, e quelle che invece rivendicano la natura cooperativa della persona. Il principale rappresentante della seconda tradizione è Aristotele: l’uomo è animale politico, cioè capace di dialogo con gli altri, di amicizia (philia) e di cooperazione per il bene della polis. L’esponente più radicale della prima tradizione dell’animale insocievole è Thomas Hobbes: “E’ vero che alcune creature viventi, come le api e le formiche, vivono insieme socialmente. Pertanto qualcuno vorrebbe sapere perché gli uomini non fanno lo stesso” (Il Leviatano, 1651). All’interno di questa tradizione anti-sociale si muove molta parte della filosofia politica e sociale moderna, mentre gli antichi e i medioevali (incluso San Tommaso) erano generalmente dalla parte di Aristotele. Potremmo anche dire che la principale domanda della teoria politica ed economica moderna è stato tentar di spiegare come possano emergere esiti cooperativi a partire da esseri umani che non sono capaci di cooperazione intenzionale, perché troppo dominati da interessi egoistici.

Molte teorie del ‘contratto sociale’ (non tutte) sono state la risposta della filosofia politica della modernità: individui egoisti, ma razionali, capiscono che è nel loro interesse dar vita ad una società civile con un contratto sociale artificiale. L’uomo naturale è incivile, e quindi la società civile è artificiale. La risposta della scienza economica moderna a quella stessa domanda sono le varie teorie della ‘mano invisibile’, dove il bene comune (‘la ricchezza delle nazioni’) non nasce dall’azione cooperativa intenzionale e naturale di animali sociali, ma dal gioco degli interessi privati di individui egoisti separati tra di loro. Alla base di queste due tradizioni ritroviamo la stessa ipotesi antropologica: l’essere umano è un ‘legno storto’ che, senza bisogno di raddrizzarlo, produce buone ‘città’ se è capace di dar vita a istituzioni artificiali (contratto sociale, mercato) che trasformano le passioni auto-interessate in bene comune.

E’ a questo punto che si svela un mistero del mercato. Anche la società di mercato ha una sua forma di cooperazione, alla quale però non è richiesta nessuna azione congiunta tra gli individui ‘cooperanti’. Quando entriamo in un negozio per acquistare del pane, quell’incontro tra l’acquirente e il venditore non è descritto né vissuto come un atto di cooperazione intenzionale: ciascuno cerca il proprio interesse e compie la contro-prestazione (denaro per pane; pane per denaro) solo come un mezzo per ottenere il proprio bene. Eppure quello scambio migliora la condizione di entrambi, grazie ad una forma di cooperazione che non richiede nessuna azione congiunta. Il bene comune diventa così la una somma di interessi privati di individui reciprocamente immuni che cooperano senza incontrarsi, toccarsi, guardarsi.

E’ all’interno dell’impresa dove invece ritroviamo la cooperazione intenzionale o forte, essendo l’impresa una rete di azioni congiunte e cooperative per obiettivi in massima parte comuni. Così, quando acquisto un biglietto Roma-Malaga, tra me e la compagnia aerea non c’è nessuna forma di cooperazione intenzionale ma solo interessi separati paralleli (viaggio e profitto); tra i membri dell’equipaggio di quel volo, però, deve esserci una cooperazione forte, esplicita e intenzionale. Da qui deriva che mentre (quasi) nessun economista scriverebbe una teoria dei mercati basata sull’etica delle virtù, sul lato delle teorie dell’impresa e delle organizzazioni sono ormai molte le ‘etiche degli affari’ fondate sull’etica delle virtù di Aristotele e Tommaso.

La divisione del lavoro nei mercati e nella grande società è una grande cooperazione involontaria e implicita; la divisione del lavoro dentro l’impresa, invece, è cooperazione in senso forte, un’azione volontaria congiunta. Il capitalismo di matrice anglosassone e protestante ha così dato vita ad un modello dicotomico, ad una riedizione della luterana (e agostiniana) ‘Dottrina dei due regni’. Nei mercati c’è la cooperazione implicita, ‘debole’ e non-intenzionale; nell’impresa, e in generale nelle organizzazioni, abbiamo invece la cooperazione esplicita, forte ed intenzionale – due cooperazioni, due ‘città’, profondamente e naturalmente diverse tra di loro.

Questa cooperazione non è però la sola possibile nei mercati. La versione europea della cooperazione nei mercati, in particolare quella latina, era diversa, perché la sua matrice culturale e religiosa non era individualistica, ma comunitaria. Qui la distinzione tra cooperazione ad intra (impresa) e cooperazione ad-extra (nei mercati) non è mai prevalsa - almeno fino a tempi recenti. E’ questa la tradizione della cosiddetta Economia civile, che ha letto l’intera economia e società come una faccenda di cooperazione e di reciprocità. L’impresa famigliare (in Italia ancora il 90% del settore privato), le cooperative, Adriano Olivetti, si spiegano prendendo sul serio la natura cooperativa e comunitaria dell’economia. Ecco perché il movimento cooperativo europeo è stato l’espressione più tipica dell’economia di mercato europea. Come lo sono (stati) i distretti industriali (da Prato per i filati, a Fermo per le scarpe), dove comunità intere sono diventate economia senza smettere di essere comunità. Così, il capitalismo USA ha come modello il mercato anonimo e cerca di “mercantizzare” (rendere mercato) anche l’impresa, che sempre più è vista come un nesso di contratti, una ‘commodity’ (merce), o un mercato con fornitori e clienti ‘interni’. Il modello europeo, invece, ha cercato di ‘comunitizzare’ (rendere comunità) il mercato, prendendo come modello di buona economia quello mutualistico e comunitario, esportandolo dall’impresa all’intera vita civile (cooperazione di credito e di consumo). Assumendosi i costi e i benefici di questa operazione: un’economia più densa di umanità e di gioia di vivere, ma anche di quelle ferite che gli incontri umani a tutto tondo portano inevitabilmente con sé.

Il modello USA oggi sta colonizzando anche gli ultimi territori di economia europea, anche perché la nostra tradizione comunitaria e cooperativa non è stata sempre all’altezza sul piano culturale e pratico, non si è sviluppata in tutte le regioni, e, in Italia, ha dovuto fare i conti con il trauma, non ancora del tutto elaborato, del fascismo, che si è auto-proclamato vero erede della tradizione dell’impresa cooperativa (il corporativismo). La ‘grande crisi’ che stiamo vivendo, però, ci dice che l’economia e la società fondate sulla cooperazione-senza-toccarsi possono produrre dei mostri, e che il business che è solo business alla fine diventa anti-business. L’ethos dell’Occidente è un intreccio di cooperazioni forti e deboli, di individui che fuggono dai lacci delle comunità in cerca di libertà, e di persone che per vivere bene liberamente si legano. In una fase della storia in cui il pendolo del mercato globale tende verso gli individui-senza-legami, l’Europa deve ricordare, custodendola e vivendola, la natura intrinsecamente civile e sociale dell’economia.

giovedì 21 novembre 2013

Quando la crisi morde loro banchettano

La crescita al primo posto.

Espressione udita pronunciare in radio, informazione pubblica.

Al primo posto ci chiedono di mettere una condizione che non c'è e che sappiamo impossibile da realizzare.
Quello che cresce è il debito e la disoccupazione.

Che ve ne pare?

Una situazione come questa ha un solo sbocco: l'implosione del sistema su se stesso.

La decrescita è già tra di noi: decrescita demografica, impoverimento culturale, esaurimento delle risorse ambientali, diminuzione di tutti gli indici della qualità della vita.

Aumenta l'aspettativa della durata della vita, ma sempre più medicalizzata, con costi per la sanità pubblica che non sono più sostenibili.

Il debito cresce perché cresce la massa monetaria che va ad arricchire la grande finanza internazionale, mentre impoverisce le famiglie, le imprese, le nazioni.

In Italia l'impresa era e rimane familiare.
C'è un'economia civile e cooperativa che sta soffrendo, come nelle doglie del parto.
Lo testimoniano i tanti fallimenti e i suicidi.

E' quest'ultimo modello di sviluppo economico - familiare e cooperativo - che deve crescere e tutto il resto deve diminuire, compresa la grande impresa di stato, che pubblica non è più.

Lo sapevate che la rete internet, quella che custodisce tutti i nostri preziosi dati sensibili, personali e familiari (con relative password), è totalmente in mano ad agenzie e aziende private, sparse sul globo?

Ciò che è pubblico è noto ed è nostro perché condiviso, ciò che è privato non è noto al pubblico, è a noi nascosto appunto perché ne siamo "privati".

C'è un solo business in crescita in questa contingenza, il business dei diseredati: il gioco d'azzardo.
Un business che ha raggiunto e superato un giro d'affari annuo di 90 miliardi (e questa è solo la punta dell'iceberg): 1500 euro a cranio, ma cosa c'è dentro quel cranio?

Cosa ci dice tutto questo?
La rete in cui siamo immersi quotidianamente ci somministra un'illusione: di essere capaci di oltrepassare i limiti imposti dalla nostra natura umana e dall'ambiente in cui siamo immersi.

Ma noi rimaniamo noi, perché fatti di carne e di sangue.

Un'evidente dicotomia tra autopercezione e realtà, è l'"inner divide", la divisione interiore che deriva da una condizione di deperimento delle facoltà mentali.

Desideriamo essere perfetti, ma non abbiamo in noi la forza per realizzarci.
Non da soli.
Non isolati a subire la malia della pubblicità.
Se esiste una "pubblicità progresso", ne deduco che tutto il resto è regresso.

I Gruppi di Acquisto Solidale costituiscono un sostegno concreto, solido e costante alla rete di mini e micro aziende che dovranno diventare il nostro tessuto produttivo del futuro.

Di tutto il resto rimarrà poco e niente.

mercoledì 20 novembre 2013

Lessico del ben vivere sociale / 8

Avvenire del 17 novembre 2013

Qualcosa di unico

di Luigino Bruni

Sta emergendo una nuova domanda di partecipazione nel consumo, nel risparmio e nell’uso dei beni. Una differenza cruciale, ad esempio, tra l’internet di 10-15 anni fa, abitato da siti web e dalle email, e il web dei social media e delle Apps, è un maggior coinvolgimento e protagonismo di noi abitanti della rete. Analogamente, la tv oggi non manda in onda soltanto programmi per ‘telespettatori’, ma ci chiede di votare il cantante o il giocatore migliore. E la cosa interessante è che la gente partecipa, investe tempo per dire la propria opinione e per sentirsi parte attiva di una nuova forma di comunicazione: per fare un’esperienza.

Molti dedichiamo tempo, e molto, per scrivere o arricchire, in modo anonimo, le voci di Wikipedia (l’enciclopedia del web), o per migliorare un software libero. È come se stessimo creando nuove ‘piazze’, dove la gente sta tornando, diversamente e con gusto, a parlare, a perder tempo disinteressatamente. Un fenomeno di certo ambivalente, ma l’ambivalenza può essere anche l’inizio di un discorso generativo.

Agli uomini e alle donne il solo consumo dei beni non è mai bastato. Da animali simbolici e ideologici quali siamo, abbiamo sempre chiesto di più alle nostre merci: dallo status sociale alla rappresentazione di futuri migliori durante presenti indigenti. Tramite i beni abbiamo voluto parlare, raccontare storie, raccontarci agli altri, e ascoltare gli altri parlare. Fare esperienze. Alcuni beni, poi, sono talmente legati ad un’esperienza che gli economisti li hanno chiamati “beni d’esperienza” (experience goods), quei beni che riusciamo a capire e valutare solo dopo averne fatto esperienza diretta e personale. Sono beni di esperienza quasi tutti i beni culturali e turistici. Posso valutare se ho speso bene il biglietto per un museo mentre lo visito, non prima; capisco se il prezzo di quel week-end all’agriturismo era congruo solo quando mi trovo sul posto, e vedo paesaggio, ambiente e incontro i padroni di casa. Il mercato non ama questa incertezza, e cerca di offrirci alcuni degli elementi decisivi per valutare ex-ante un hotel o un ristorante. Ecco allora il sito internet sempre più ricco di foto, e soprattutto il peso crescente delle recensioni dei clienti, oggi talmente importanti che rischiamo di veder nascere un mercato incivile di compravendita di recensioni positive, e negative (per i concorrenti).

E qui si aprono discorsi centrali per comprendere l’evoluzione del nostro sistema economico e sociale. Innanzitutto nei beni di esperienza sono gli elementi di contorno quelli che risultano essere decisivi. Posso avere il più bel sito archeologico del mondo, ma se non c’è un intero sistema territoriale (trasporti, hotel …) che funziona, il valore di quel bene precipita, e porta giù con sé il valore d’intere regioni. Posso trovare agriturismi marchigiani in ottime ‘location’, ma se quando arrivo non trovo quello stile relazionale frutto di secoli di cultura dell’accoglienza, che si traduce in mille dettagli concreti, il valore di quella vacanza scompare o si ridimensiona molto. In questi beni si coglie nella sua purezza uno dei tratti più complessi e misteriosi della nostra società di mercato. Quando un inglese viene in vacanza in Toscana o in Andalusia, va in cerca anche di dimensioni intrinseche a quelle culture, che non sono semplici merci. Certo, sa che il resort e il ristorante tipico sono imprese commerciali e che quindi rispondono alla logica del profitto, ma parte del benessere di quella vacanza, a volte la parte più consistente, dipende dalla presenza di contesti culturali, che sebbene entrino (eccome!) nel prezzo di quell’alloggio e di quel pranzo non sono semplici merci ‘prodotte’ da quegli imprenditori a mero scopo di lucro. Tanto che il valore di assistere ad una vera sagra paesana o ad una autentica rievocazione storica è immensamente maggiore di quelle rappresentazioni folkoristiche organizzate artificialmente, e a pagamento, dal ristoratore. Nei nostri territori esistono, in altre parole, dei patrimoni culturali che sono degli autentici beni comuni (e non beni privati), accumulati nei secoli, che diventano anche vantaggio competitivo delle nostre imprese e che generano profitti. Occorre custodirli, perché da loro dipende molto della nostra forza economica e civile presente e ancor più futura.

Un secondo ambito è poi il cosiddetto consumo critico e responsabile. Ciò che ci porta nelle botteghe civili e speciali del commercio equo è soprattutto la ricerca di una esperienza. Per questo è essenziale parlare con chi vi lavora, farsi raccontare le tante splendide storie dei beni, far ‘parlare’ la gente che li ha prodotti; intrattenersi magari a scambiare qualche parola sul nostro capitalismo, o incontrare qualche altro cliente che è lì per fare la nostra stessa esperienza. Il valore di questo consumo non è contenuto soltanto nel bene (e nei rapporti di produzione che esso incarna), ma anche nell’esperienza interpersonale che facciamo quando ci rechiamo in un negozio, in una filiale di una banca, in un mercato. L’etica senza esperienza è solo ideologia.

Infine, dobbiamo prendere coscienza che tutti i beni di mercato stanno diventando beni di esperienza. È questo un paradosso cruciale nell’economia di mercato contemporanea. Da una parte, il mercato ha bisogno di produrre una massa crescente di beni senza troppe varianti, poiché le economie di scala e le esigenze di costo portano a consumi di massa di merci simili per poterli riprodurre, con poche varianti e a basso costo, in tutto il mondo. E così si sono mosse le imprese del XX secolo. Ma queste imprese si trovano oggi a fronteggiare anche una tendenza opposta. La democrazia e la libertà generano milioni di persone con gusti e valori diversi, dove ciascuno sa di essere unico e non omologabile. Ecco allora che le grandi imprese cresciute con la mentalità del consumo di massa, devono ripensarsi profondamente. Da una parte siamo attratti dall’avere anche noi esattamente quel tipo di computer o telefonino status simbol; al tempo stesso, però, vorremmo che il nostro pc avesse qualcosa di unico disegnato sulla mia persona; vorrei, cioè, che l’esperienza che io faccio con quel pc sia unica e solo mia, perché soltanto io sono io. Ecco allora che si aprono prospettive intriganti per il prossimo futuro industriale ed economico. Le imprese di successo, anche su scala mondiale, saranno quelle capaci di mettere assieme prodotti che possono essere venduti su mercati sempre più globali (e oggi la rete consente anche a piccolissime imprese di operare a Madras, Lanciano e a Lisbona), ma soprattutto capaci di coinvolgere il ‘consumatore’ in un’esperienza nella quale non si sente uno dei tanti anonimi e cloni possessori e utenti, ma un pezzo unico. Si capisce allora che ci attende un grande sviluppo di ‘fai da te’ più sofisticati degli attuali, fatti di un intreccio di beni standardizzati, di assistenza tecnica e della nostra creatività nel personalizzare abitazioni, giardini, siti internet, e domani quartieri e città. Se sappiamo guardare dentro l’ambivalente mercato televisivo di ultima generazione, ad esempio, possiamo già trovarvi qualcosa del genere, o almeno tentativi, più o meno felici, di andare in questa direzione.

Quando usciamo di casa per scendere nei mercati, cerchiamo esperienze più grandi delle cose che compriamo. Troppo spesso, però, i beni non mantengono le loro promesse, perché quelle esperienze sono troppo povere rispetto al nostro bisogno di infinito. E così, delusi ma capaci di dimenticare le delusioni di ieri, ricominciamo ogni mattina le nostre liturgie economiche, in cerca di beni, di sogni, di rapporti umani, di vita.

venerdì 15 novembre 2013

Lessico del ben-vivere sociale / 7

Avvenire dell'11 novembre 2013

Rigenerare virtù capovolte

di Luigino Bruni

C’è una legge economica e sociale tanto importante quanto dimenticata. È quella che Luigi Einaudi chiamava la «teoria del punto critico», che egli definiva «fondamentale nella scienza, sia economica sia politica» (Lezioni di politica sociale, 1944) e che attribuiva al suo conterraneo Emanuele Sella (un economista e poeta, che scrisse anche un trattato di economia "trinitaria"). L’idea è l’esistenza di una soglia invisibile ma reale, di un punto critico, appunto, superato il quale un fenomeno da positivo diventa negativo, cambiando segno o natura. La legge del punto critico potremmo oggi applicarla alla finanza, ma anche alle tasse (che quando superano una soglia finiscono per penalizzare gli onesti che le pagano).

Scriveva Einaudi: «È ragionevole che ogni famiglia aspiri al possesso della radio. Ma la radio può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento dell’umanità. Il passaggio dalla radio che allieta e istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa d’imbecillimento dell’umanità è graduale». Se cambiamo l’oggetto del suo discorso e al posto di "radio" (oggi tra i media più creativi e critici) scriviamo "tv", la logica della sua analisi diventa attualissima, e può essere estesa a tutti i beni di comfort.

Nelle prime fasi dello sviluppo, la disponibilità di beni che aumentano il comfort è importante per il benessere. Gli esempi sono tanti. Basti pensare a che cosa ha rappresentato l’invenzione della lavatrice per il benessere delle nostre nonne e mamme. O all’introduzione della pay-tv che ha consentito di vedere la partita a casa al caldo e senza rischi. Qualcosa di analogo è poi accaduto con l’avvento dei social media. Ma sono ormai molti gli studi che ci dicono che gli effetti dei beni di comfort sul benessere cambiano di segno, o di natura, quando si supera un punto critico. Utilissimi sono i cibi precotti quando facciamo tardi e abbiamo venti minuti per preparare la cena; ma se col tempo diventano l’unico cibo presente nel frigo, e ci tolgono la gioia di preparare un pranzo (sano), magari insieme, è probabile che la nostra vita peggiori in qualità.

Ma perché – è questa la domanda cruciale – dovremmo cadere in simili trappole, e non fermarci prima di superare il punto critico? Le ragioni sono molte. Una prima ce la fa intravvedere lo stesso Einaudi: la gradualità. Il punto di svolta si supera un po’ alla volta e senza accorgersene, o accorgendocene troppo tardi. Una seconda spiegazione si chiama salienza: c’è in noi una forte tendenza a vedere di più i beni di comfort e a veder meno beni come quelli relazionali e civili. Nel calcolo del peso relativo che i diversi tipi di beni hanno per la nostra felicità, sovrastimiamo le merci e sottostimiamo i beni non di mercato, che essendo più ordinari e feriali (pensiamo ai rapporti di famiglia, o alla democrazia) li vediamo meno, sono meno salienti – tranne poi accorgerci del loro valore, e del loro prezzo, una volta che li perdiamo. Infine, c’è l’attuale mercato capitalistico: esiste tutta un’industria, sempre più agguerrita, orientata razionalmente a venderci beni di comfort, mentre nessuno (tranne "Pubblicità Progresso") paga per pubblicità che ci incoraggi a investire in beni relazionali o in libertà – interessante è, a questo riguardo, lo «spot impossibile» (è su youtube) ideato da Stefano Bartolini.

C’è poi un altro ambito toccato da quel testo di Einaudi: «Una società di gente ubbidiente diventa presto vittima del tiranno o di impiegati e di mandarini. Chiamavasi "Regola" quella che S. Benedetto, S. Francesco e gli altri grandi fondatori avevano dato agli ordini monastici. Finché i conventi furono poveri, solo gli uomini pronti al sacrificio vi entravano. Così il convento prosperava; e le donazioni dei fedeli affluivano; e molti desideravano dedicare ad esso sé e la famiglia e i beni. Ma la ricchezza partorisce la corruzione. (…) Dappertutto, a distanza di cento anni dalla fondazione, più o meno, si assiste alla medesima vicenda». Qui il superamento di un punto critico produce lo snaturamento di un elemento che nel tempo da buono si trasforma nel suo opposto (sudditanza, accumulazione di ricchezza …). È, questa, un’espressione di un’antica regola aurea: i comportamenti viziosi spesso non sono altro che primitive virtù pervertitesi per aver voluto salvare la forma e non la sostanza che le aveva generate – il prudente risparmio che diventa avarizia, o il giusto profitto che evolve in rendita parassitaria. La fedeltà incondizionata alla lettera del fondatore di movimenti culturali o spirituali, ad esempio, che nella prima generazione era stato un elemento vitale ed essenziale per la nascita e crescita di quelle esperienze, a un certo punto fa innescare un meccanismo auto-distruttivo che impedisce il vitale bisogno di rinnovamento e di riformatori, fino a morire in nome di antiche virtù (fedeltà) tramutatesi gradualmente in vizi (immobilismo). I movimenti come i grandi ordini mendicati francescano o domenicano vivono ancora a distanza di secoli anche perché sono stati capaci di generare molti riformatori, creativamente fedeli.

Esistono, infatti, degli accorgimenti da adottare per evitare, prevenire o quantomeno gestire, queste crisi, che a volte diventano vere e proprie "morti". Una prima regola fondamentale è prendere coscienza individuale e collettiva, e nei tempi ancora felici, che il punto critico esiste. Sapere è il primo antidoto e può salvare, soprattutto se diventa anche regole di governance e accortezza istituzionale. Ma ancora più importante è la presenza, o l’introduzione, di una culturale giubilare. Nel popolo d’Israele ogni cinquant’anni i beni tornavano agli antichi proprietari, i debiti si cancellavano. Se i movimenti e le comunità nati da idealità periodicamente smobilitassero e rimettendo in circolo i beni accumulati nei decenni, e si rimettessero "lungo la strada", lì ritroverebbero quella forza profetica che nel frattempo s’è naturalmente affievolita; e lì, nelle periferie, incontrerebbero tanti in ricerca di quegli stessi ideali che non trovano più nei luoghi della vita ordinaria.
Infine, non è difficile accorgersi che senza ascoltare chi ce lo diceva o gridava alcuni punti critici in Occidente li abbiamo già superati – e quando succede essi scompaiono dall’orizzonte visivo delle civiltà. Li abbiamo superati, o vi siamo molto vicini, nell’ambiente naturale, nei capitali spirituali, nell’uso dell’acqua, nel consumo di suolo pubblico, in molti tessuti comunitari, nell’uso di incentivi, dei controlli, della concorrenza, o nella sopportazione dell’ingiustizia del mondo. Abbiamo di certo oltrepassato il punto critico della vita esteriore (consumi, merci, tecnica), e così ci appare normale la nostra grande carestia e incapacità d’interiorità, di meditazione, di preghiera nella quale siamo precipitati, gradualmente. Stessa sorte è quella capitata all’immunità. La buona conquista moderna di spazi e momenti di vita privata immuni da potenti e da padroni, si è trasformata in una cultura dell’immunità dove non ci si abbraccia e non ci si sfiora più. E così una piena di solitudine sta inondando le nostre città. Ci stiamo abituando a soffrire soli, a morire soli, a diventar grandi da soli in stanze chiuse, vuote di persone amiche, ma piene di demoni che ci rubano i nostri figli.
Parlare insieme di questi grandi temi civili è un primo passo decisivo per prenderne coscienza e per non oltrepassare altri punti critici all’orizzonte. Per fermarci e perfino retrocedere: in alcuni casi, rari ma luminosi, i popoli sono stati capaci di farlo.

mercoledì 13 novembre 2013

Al via il biennio 2013-2015 della Scuola del Legame Sociale

Ancora posti disponibili per iscriversi al nuovo biennio della Scuola del Legame Sociale, promossa dal Centro Servizi Volontariato di Padova.

Sette incontri all'anno, per due anni.
Un percorso formativo e culturale sul significato contemporaneo della relazione e del dono.

Il focus di quest'anno è il lavoro: il lavoro come diritto, dovere, impegno, occasione di relazione, anche intergenerazionale, patto sociale, espressione di creatività.

Oggi, però, la parola lavoro viene spesso associata ad altre parole: stress, assenza, crisi, emarginazione, sopravvivenza ...

Ci sono ancora molti posti di lavoro volontario ... per cercare di trovare, insieme, una risposta al malessere sociale e riscoprire il benessere del lavoro.

Vi aspetto sabato prossimo, 16 novembre, alle ore 9:30, presso la sede del CSV, in Via Gradenigo 10, zona Portello, Padova.

Qui trovate tutte le informazioni del caso:

Lavorare stanca? Il focus del nuovo biennio

Il calendario delle 7 lezioni con laboratorio

L'evento su facebook

giovedì 5 settembre 2013

Abbiamo perso il controllo?

La pornografia dentro casa

Fonte "" di Domenica 28 Luglio 2013

Vorrei parlare di Inghilterra, questa settimana. Non per celebrare la nascita dell’erede al trono, ma per riflettere sulla decisa presa di posizione del primo ministro David Cameron che, nei giorni scorsi, ha preso di petto il problema della pornografia su internet. Per prima cosa, entro pochi mesi sarà bloccata all’origine la possibilità di navigare sui siti pornografici: chi volesse, dovrà farne esplicita richiesta al momento dell’attivazione della linea. In più, Cameron ha chiesto a Google e agli altri motori di ricerca di fare la loro parte, bloccando la ricerca di parole o frasi che rimandino esplicitamente alla pornografia. Vista la velocità con cui marcia la tecnologia, è chiaro che nessuna soluzione ci garantirà del tutto. Ma quella scelta dall’Inghilterra – più o meno come si fece anni fa in Italia per contenere il fenomeno dei numeri telefonici a pagamento – va comunque nella direzione giusta.
Per quanto ripugnante sia, dopo i 18 anni il porno è legale. Certo, ma anche se siete adulti e volete consumare pornografia via internet, almeno metteteci la faccia e la firma. Vista la diffusione nelle case, e sempre di più anche sui telefonini che mettiamo in mano ai nostri ragazzi, la rete non può infatti continuare a essere una immensa prateria libera da ogni controllo. Più che le soluzioni tecniche, quel che però mi pare meritevole nell’iniziativa del governo inglese sono le motivazioni. «I nostri ragazzi stanno crescendo troppo velocemente – ha sottolineato Cameron – e la visione di certe immagini li danneggia perché influisce sull’atteggiamento e sulle aspettative che essi avranno del sesso. Le aziende hanno l’obbligo morale di agire».
Non è un bigotto, Cameron. Sta solo traducendo in azione politica quel che milioni di persone pensano: non è giusto che i nostri figli siano esposti a un’assalto così violento e pervasivo da scardinare ogni difesa, privando di fatto le famiglie, la scuola, la comunità del ruolo educativo che a loro spetta. Alla fine, come si domanda Cameron, che aspettative avranno del sesso e prima ancora dell’amore? Che mariti e mogli saranno? Come si plasmerà la loro struttura psicologica e morale? In attesa di individuare la soluzione tecnica più efficace, è già importante che un governo si ponga questi interrogativi invece di nascondere la testa sotto la sabbia o di continuare a ripetere stantii slogan dei tempi passati: questa non è libertà, ma un abuso continuato di cui i nostri ragazzi sono vittime. La rete, si dice, è uno straordinario strumento che ha allargato a dismisura i nostri confini mentali portandoci l’intero mondo in casa. Verissimo. A patto di ricordarci che non tutto il mondo è buono. E che non tutto merita di essere visto da un bambino di dieci anni.
Editoriale di Guglielmo Frezza

lunedì 2 settembre 2013

Rispettiamo la Madre Terra


1° settembre – Giornata per la salvaguardia del Creato
 
Si celebra il 1° settembre l'ottava Giornata per la salvaguardia del creato, promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana. Scriveva nel 1991 Raimon Panikkar (1918-2010) – sacerdote, filosofo e autore di più di sessanta libri sulle religioni e sul dialogo interreligioso – che occorreva chiedere perdono alla madre terra per le contaminazioni che le abbiamo causato con la violenza, lo sfruttamento, l'avidità.

1° settembre – Giornata per la salvaguardia del Creato (foto MARCATO)Invocava Dio Padre, affinché si compisse quella riconciliazione tra l'uomo e la terra che avrebbe favorito la liberazione dai nostri peccati. Panikkar, in sintesi, offriva e consacrava al Signore la madre terra. Memori di questo insegnamento, anche noi dobbiamo comprendere il valore del creato per riscoprire il vero volto di Dio. Dalla contemplazione della terra e delle sue meraviglie, infatti, scaturisce la lode e il ringraziamento al Creatore.

Ma è necessario anche sensibilizzarsi per rispettare la bellezza della natura, per non offenderla con la nostra avidità e cupidigia, inquinandola, distruggendola, deturpandola. Si tratta di maturare una coscienza ecologica, più attenta a non sciupare quella splendida casa che è il pianeta sul quale viviamo. Ci libereremo così da quell'egoismo che è la causa principale dei disastri ambientali e dello sfruttamento senza misura della terra.

Tratto da: La domenica, nr. 38 del 1° settembre 2013

L'illusione della crescita!

Il paradigma della crescita

Fonte "" di Domenica 1 Settembre 2013

Siamo sinceri: tra i mille problemi che l’Italia si trova ad affrontare, quello dell’Imu non è certo il principale. Ma qualche riflessione vale comunque la pena di farla, dato che in ogni caso – sotto altra forma o sotto altro nome poco importa – il tema della giusta tassazione degli immobili si ripropone puntualmente ogni anno. Conti alla mano, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa ha più un valore simbolico che di reale aiuto ai bilanci familiari. Non solo: in proporzione a guadagnarci sono i ceti più abbienti, quelli che possono permettersi abitazioni più grandi e in quartieri migliori, non certo chi con fatica sta pagando il mutuo per un bilocale in periferia. Poi, certo, ogni risparmio è ben accetto. Ma se il contrappasso è quello di vedersi alzare ancora le tariffe comunali – o peggio di veder ridotti i servizi che l’Imu contribuisce a pagare – per la maggior parte di noi il gioco non vale la candela. L’altra grande critica addotta all’Imu è che avrebbe contribuito ad affossare il settore dell’edilizia. Con le tasse, dicono, non si costruisce e non si compra più. Magari è anche in parte vero, ma più che di prima casa qui stiamo parlando del mattone da investimento (seconde case, case vacanza, spazi commerciali, capannoni). E su questi immobili nessuno ha mai comunque ipotizzato di togliere l’Imu. Ma poi – si permetta la provocazione – davvero sentiamo il bisogno di nuovi cantieri, nuove lottizzazioni, nuovo cemento in un Veneto in cui si è costruito a dismisura negli scorsi anni? Se il mercato è inondato di case invendute, se ovunque vediamo progetti faraonici tristemente fermi da anni nel cuore delle città, davvero pensiamo che si possa ancora sostenere la famosa “crescita” perpetuando un simile modello? Se bisogna dare un aiuto al settore, invece di pensare all’Imu non sarebbe meglio investire ancora di più sulla riqualificazione energetica, i (moderati) ampliamenti di superficie, la ricucitura degli spazi, la bonifica dell’esistente, gli spazi verdi? Nonostante la crisi, il piano casa regionale ha portato a investimenti che superano i due miliardi in quattro anni. Nonostante la crisi, le detrazioni d’imposta per i lavori di ristrutturazione hanno raccolto uno straordinario successo, dando lavoro e facendo anche pagare le tasse. Molti italiani hanno già capito che è un paradigma culturale, prima che economico, quello che va cambiato. Abbiamo bisogno di meno quantità e più qualità. Perché anche dire che bisogna “puntare alla crescita” o “far ripartire il mercato” – senza domandarsi il costo in termini ambientali, sociali, di salute – è solo uno slogan che fa il paio con quelli in stile “la prima casa è sacra”. Fanno colpo, ma a conti fatti rischiano di farci soltanto male.

Editoriale di Guglielmo Frezza

giovedì 29 agosto 2013

Commento di Padre Adriano Sella al digiuno di Don Albino Bizzotto

Dal digiuno straordinario al consumo responsabile ordinario
per custodire il nostro territorio


La scelta straordinaria di don Albino dei Beati i Costruttori di Pace, di mettere in atto il digiuno per richiamare l’attenzione della popolazione e delle autorità alla questione ambientale del nostro territorio, è una scelta davvero coraggiosa con una bella testimonianza. Dobbiamo ringraziarlo per il coraggio e per aver suscitato confronto, dibattito e unione di forze attorno alla questione del territorio del Veneto, fortemente a rischio a causa di varie grandi opere volute dall’economia del profitto.
Questa azione rimane, tuttavia, straordinaria sia perché pochi la possono mettere in atto e sia perché il digiuno (sciopero della fame) è uno strumento da utilizzarsi in caso di urgenza e di emergenza.
Da questa forma straordinaria bisogna passare ad una azione ordinaria: possibile a tutti i cittadini e concreta nella propria vita quotidiana. La possiamo individuare nell’impegno del consumo responsabile, critico e solidale che può essere messo in atto ogni giorno, quando compriamo cioè nell’andare a fare la spesa.
Ecco una proposta quotidiana che risponde alla domanda che mi hanno fatto varie persone in questi giorni: “Noi cosa possiamo fare per custodire il nostro territorio?”.
La prima domanda da farsi è: dove andiamo a fare la spesa? La scelta di andare nei grandi centri commerciali, oppure negli ipermercati, non è la stessa cosa di quando si va a fare la spesa nei negozi o direttamente dai produttori, come fanno i gruppi di acquisto solidale (G.A.S.). La prima significa sostenere l’economia dei colossi e delle grandi multinazionali che sono i responsabili delle grandi opere che vogliamo realizzare oggi, distruggendo tutto il tessuto socio-culturale e umano di un territorio. La seconda scelta significa promuovere un’economia alternativa, sostenendo tutti i piccoli e medi negozi che riescono ad occupare molta più gente a livello lavorativo e che sono il tessuto di relazioni sociali ed umane dei nostri paesi, oppure organizzandosi e andare direttamente dai produttori per sostenere il loro lavoro e il loro impegno di produrre nel pieno rispetto dell’ambiente.
Vandana Shiva, scienziata, economista e ambientalista indiana, denunciava fortemente come il grande colosso della Coca-Cola si era appropriata dell’acqua di una regione dell’India prosciugando le falde acquifere della zona nel giro di soli due anni, costringendo migliaia di donne a fare centinaia di chilometri per andare ad approvvigionarsi d'acqua. È bene prendere coscienza, che questa azione distruttrice della multinazionale viene sostenuta da chi fa uso dei suoi prodotti e non ha il coraggio di fare una scelta alternativa.
La seconda domanda da farsi è: di chi sono i prodotti che compriamo? Comprare prodotti di grandi imprese che sono responsabili dell’inquinamento dell’ambiente, non è la stessa cosa di acquistare prodotti della filiera che ha una grande attenzione verso l’agricoltura naturale e biologica. La prima filiera di produzione è altamente distruttrice dell’ambiente, perché fa uso di molti diserbanti e pesticidi agrotossici; mentre la seconda è molto attenta al rispetto della natura e del territorio. La scelta della filiera etica di produzione è molto importante: per poter rispettare l’ambiente, pagare un prezzo giusto ai produttori e rispettare i diritti dei lavoratori, così come fa il commercio equo e solidale.
Come scrisse l’economista Leonardo Becchetti, noi cittadini come consumatori abbiamo il “voto nel portafoglio”. È vero, ogni volta che compriamo votiamo col nostro portafoglio. Questo è un potere enorme nelle mani dei cittadini. Lo sappiamo utilizzare? Ed è uno strumento quotidiano che ci pone davanti ad un bivio: continuare a sostenere l’attuale economia di profitto, nelle mani delle multinazionali (pensiamo al business mondiale del cibo che viene gestito da un pugno di transnazionali); oppure promuovere un’economia alternativa, quella etica, che mette al centro l’umanità e la terra, con una grande attenzione all’ambiente, offrendoci inoltre prodotti di qualità che fanno bene alla salute.
Qui sta l’azione quotidiana che ci permette di indebolire, minando dal basso, il potere dei grandi colossi economici che oggi vogliono usare il territorio veneto, cementificandolo enormemente e realizzando una lunga lista di grandi opere. Dobbiamo ricordare che dietro a questi grandi gruppi c’è la finanza speculativa, come pure, spesso, anche la corruzione.
Per far capire meglio questo potere del cittadino come consumatore, voglio ricordare che è stata sufficiente la riduzione dei consumi di appena il 3 o 4% per mettere in ginocchio grandi multinazionali, come la Coca-Cola, dimostratesi poi disponibili a discutere.  Recentemente, l’azione di una percentuale non rilevante di cittadini del nostro territorio che hanno fatto la scelta di non andare a fare la spesa alla domenica nei grandi centri commerciali, per poter vivere la domenica delle 3 erre (relazioni, riposo e Risorto), ha contagiato la grande catena di supermercati Famila, del colosso Gdo,  facendo la scelta di non aprire più alla domenica, mossi dalla convenienza economica, ma riscoprendo pure l’etica nel rispettare il diritto del riposo domenicale dei propri lavoratori e nel rispetto dell’ambiente.
Questa azione quotidiana, possibile a tutti, deve essere vissuta a tre livelli: personale mediante una spesa giusta, etica e solidale; comunitario nell’organizzarsi come cittadini, così come fanno i gruppi di acquisto solidale o i distretti di economia solidale; istituzionale con l’impegno politico diretto e di pressione verso le istituzioni locali, regionali e nazionali, così come fanno i tanti comitati e presidi per la difesa del territorio.
Credo sempre più che questo sia lo strumento potente, non violento e quotidiano che tutti possono e devono utilizzare per custodire il proprio territorio: il consumo responsabile e la finanza etica.

Tramonte (Padova) 27/08/2013
Adriano Sella
(missionario del Creato e coordinatore della Commissione diocesana Nuovi Stili di Vita)
e-mail: adrianosella@virgilio.it; sito-blog:  www.contemplazionemissione.wordpress.com

sabato 3 agosto 2013

Auditorium sì, ma non lì

auditorium



Italia Nostra scrive in questi giorni, in cui si è riaperto con forza il dibattito sull’(in)opportunità di realizzare un auditorium a p. le Boschetti. Lo fa rivolgendosi al Sindaco Ivo Rossi, all’assessore alla cultura Andrea Colasio e al Presidente della Commissione cultura Giuliano Pisani (questi ultimi due da sempre contrari all’ipotesi Kada).
“Va salutata con incondizionato favore – scrive Renzo Fontana, vicePresidente di Italia Nostra sezione di Padova – la sempre più concreta ipotesi, ventilata dall’Amministrazione comunale, di rinunciare all’auditorium in piazzale Boschetti per una sua diversa ubicazione nell’ex Tesoreria della Cassa di Risparmio in piazza Eremitani o al Centro congressi in Fiera. Diciamo subito che a parità di capienza riteniamo senz’altro preferibile la scelta dell’ex Tesoreria, che con l’adiacente Conservatorio Pollini darebbe vita a un’organica cittadella della musica. In ogni caso, ed è la cosa più importante, con il definitivo tramonto del progetto Kada, da noi sempre avversato, piazzale Boschetti potrà tornare alla sua originaria vocazione di spazio destinato a verde, nel pieno rispetto della Cappella degli Scrovegni.
Sulla quale tuttavia – conclude Renzo Fontana – continua a incombere la minaccia del grattacielo più alto del Veneto (108 m), quello di Podrecca, già in cantiere nell’area PP1 affacciata su via Trieste: un intervento incompatibile con il capolavoro di Giotto, sia in termini di sicurezza idraulica sia in termini di impatto visivo. Si tratta peraltro di un progetto che sta segnando il passo a causa della crisi economica e che potrebbe trarre profitto da una riprogettazione meno impattante e più praticabile sul piano economico e di mercato”.

L'articolo completo, tratto da Ecopolis del 19 luglio 2013 lo trovate qui:

Auditorium sì, ma non lì

giovedì 1 agosto 2013

Piazzale Boschetti potrebbe diventare un parco


 nuovo boschetti

Fonte iPadovaOggi - 29 luglio 2013


Sta prendendo sempre più forma l'ipotesi di Palazzo Foscarini sede dell'auditorium e quindi la necessità di ripensare piazzale Boschetti.
L'ipotesi avanzata dal vicesindaco Ivo Rossi è che l'ex stazione delle corriere possa diventare una prosecuzione del parco dei Giardini Arena.

"Nei fatti l'area è già destinata ad area verde - ha spiegato Ivo Rossi durante un incontro con i giornalisti - la cubatura può essere concentrata, senza fare nessuna variante, nel 10% dell'area scoperta, creando un parco nel restante 90%. L'amministrazione può impegnarsi in questo.
Considerando altri due fattori che non sono secondari: innanzitutto la decisione di lavorare su palazzo Foscarini quale sede della nuova casa della musica sta riscuotendo un consenso ampio e poi in questa ipotesi non si danneggia la città, cioè non la si impoverisce sottraendo valore all'area.
Si tratta di una operazione di riqualificazione urbana che mette in dialogo il parco Europa, il Piovego lungo gli istituti che, dopo il parco di piazzale Boschetti, continua su via Valeri con una linea verde che diventa una grande passeggiata".

Ipotesi piazza Eremitani per l'auditorium di Padova


palazzo foscarini


Fonte iPadovaoggi - 19 Luglio 2013


L'argomento è stato discusso nella Giunta di martedì scorso e quindi condiviso con i consiglieri comunali di maggioranza. Per l'auditorium potrebbe tramontare l'ipotesi piazzale Boschetti che, in una ipotesi sul tavolo tra Comune e Fondazione Cassa di Risparmio del Veneto individua in una buona sede Palazzo Foscarini, l'ex tesoreria della Cassa di Risparmio del Veneto in piazza Eremitani.

"Negli ultimi due mesi abbiamo condotto numerose esplorazioni con la Fondazione Cariparo per raggiungere una soluzione soddisfacente per la Casa della musica, un obiettivo politico che si è intrecciato con la storia della città degli ultimi 30 anni" spiega il vicesindaco Ivo Rossi.
La convergenza di Comune, Provincia e Fondazione Cariparo ha creato le condizioni e nel 2006 la permuta dell'area di piazzale Boschetti con la Provincia poneva le basi per il concorso internazionale.
"Ora sono cambiate le condizioni e non c'è più condivisione con un soggetto istituzionale, – continua Rossi –
E' continuato il rapporto con il soggetto disposto a finanziare il progetto e quindi si sono create le condizioni per indicare al momento ancora sul piano ipotetico, Palazzo Foscarini".
"E' un investimento che la città fa su se stessa, togliendosi dal provincialismo a cui qualcuno vuole ancorarci - commenta ancora il vicesindaco Rossi -
L'auditorium, se questa soluzione verrà condivisa anche dalla proprietà e dalla
Fondazione, potrebbe avere una grande sala da oltre mille posti, altri due piani di palazzo Foscarini avrebbero la possibilità di ospitare spazi per il conservatorio mentre sotto sarà ricavata una galleria commerciale, con un grande ristorante. Ridaremmo vita così a piazza Eremitani, innestando
nell'isola della cultura costituita dalle realtà già esistenti quali il museo degli Eremitani, la cappella degli Scrovegni, palazzo Zuckermann e il centro culturale San Gaetano un nuovo importante motore di cultura ed economia per Padova.
Si tratta di una ipotesi di rigenerazione urbana nel solco di quelle che sono le azioni di rilancio che le grandi città europee stanno portando avanti in questi anni".

venerdì 12 luglio 2013

EUGANEA FESTIVAL: cinema, musica, teatro, natura

Per chi vuole informarsi, cioè partecipare, conoscere e assumersi le proprie responsabilità c'è una manifestazione che si sta svolgendo in varie location dentro e fuori il Parco dei Colli Euganei.

Si può assistere a film e documentari su società umane e disumane, sull'ambiente incontaminato e degradato, sull'agricoltura sostenibile, l'industria inquinante, gli armamenti, le guerre, la pace, l'amore.

Si possono ascoltare armonie musicali che giungono dalle Dolomiti, gustare cibi genuini alla velocità dello slow food e molto di più ... storie di uomini e di donne come noi ... ma forse con un tanto di coraggio e di iniziativa in più.

Uomini e donne da prendere ad esempio.

Storie di uomini e donne che potrebbero divenire realtà anche nel nostro futuro, prossimo o remoto!

Euganea Festival: cinema, musica, teatro, natura

Interessante il programma del prossimo week-end, che si terrà presso l'azienda agrituristica La Costigliola di Rovolon:

Il programma di sabato 13 luglio

Il programma di domenica 14 luglio

lunedì 17 giugno 2013

Se Dio chiude una porta è per aprire un portale ...

Una bella analisi di Bruno Amoroso, forse un po' pessimista, ma è bene sapere ...

La crisi finanziaria, la più grande ondata di crimine finanziario organizzato della storia umana, secondo le parole di James K. Galbraith, è stata preparata nel corso di tre decenni durante i quali la globalizzazione ha avuto il tempo di organizzarsi dispiegando tutti i suoi effetti con l’imposizione del “pensiero unico” fino al “potere unico” dell’ultimo decennio. Tra gli economisti, e non solo, è prevalsa la corsa a farsi “consiglieri del principe”, tuttavia, le analisi critiche per comprendere quanto è accaduto non sono mancate: dai contributi premonitori di James K. Galbraith, Lo Stato Predatore, a quelli di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz. In Italia le persone e i movimenti che potevano denunciare e interpretare queste tendenze hanno scelto la via opportunistica dell’”inserimento” e del l’”integrazione”, trasformando il piano di apartheid globale della Globalizzazione in un’opportunità per arricchirsi nel “villaggio globale”, e interpretando i fenomeni reali della “destabilizzazione politica” e “marginalizzazione economica” come “globalizzazione dal basso” e “globalizzazione del welfare”.

I mercati finanziari sono le “fabbriche” che hanno sostituito quelle del fordismo industriale. Questo percorso di “finanziarizzazione” delle economie capitalistiche inizia negli anni ottanta con la modifica della legge bancaria negli Stati uniti, ai tempi di Reagan, poi negli anni novanta con l’introduzione di nuove regole per la finanza che hanno consentito la produzione dei derivati e titoli tossici, con Clinton, il tutto con il consolidarsi di un potere unico finanziario-militare illustrato ampiamente da James K. Galbraith. L’Europa ha seguito per imitazione le stesse politiche con le “direttive europee”, passivamente recepite anche in Italia, che hanno introdotto la banca “universale” e la liberalizzazione dei mercati finanziari. In Italia questo percorso è stato segnato dalla biografia di Mario Draghi. Negli anni ottanta è direttore per l’Italia della Banca mondiale, negli anni novanta diventa direttore generale al Tesoro e privatizza il sistema bancario, introduce il Testo unico del 1993 sulle banche, che recepisce tutte le direttive europee, comprese quelle ben note sui derivati speculativi. Poi lascia la mano per andare a dirigere la Goldman Sachs e contribuire così a mettere a punto la “grande truffa” che esplode nel 2008, truffa di cui non era a conoscenza pur essendo responsabile della sorveglianza in quanto Governatore della Banca d’Italia.

L’euro doveva essere lo scudo, ma la sua gestione è stata affidata a chi ha messo in moto la crisi ed è quindi divenuto la camicia di forza che impedisce agli Stati e alla stessa Ue di reagire e di difendersi. Il ruolo dell’Europa è possibile se negli Stati nazionali si manifestano forze popolari che si facciano carico di riprendere il percorso di “pace” e “cooperazione” che fu alla base dell’idea di Europa nel primo dopo-guerra, e poi fatto deragliare prima dalla “guerra fredda” e successivamente, negli anni novanta, dalla scelta di fare del progetto europeo un piano di “competitività” e di “guerra”. Una ricostruzione dell’Europa a partire dai popoli e dagli Stati deve assumere una forma confederale tra le quattro grandi meso-regioni europee (Paesi nordici, Europea centrale, Europa mediterranea, e Europa occidentale).
 
La spesa pubblica non c’entra con la crisi e invece di guardare al deficit dello Stato e al debito estero si dovrebbe guardare all’occupazione e al deficit della bilancia dei pagamenti, come ho spiegato nel mio libro L’Europa oltre l’euro. La spesa pubblica aumenta in situazioni di crisi in ragione degli stabilizzatori automatici che hanno il compito di evitare forti conseguenze sociali, ed è per questo che Keynes raccomandava al governo: “Occupatevi dell’occupazione e questa si prenderà cura del bilancio dello Stato”. Chi vuole gli stabilizzatori sociali, cioè il welfare, non intende risolvere la crisi, ma scaricarne i costi in modo irresponsabile sui cittadini più deboli e i lavoratori, cioè sul 99 per cento delle persone.

Significa che l’Europa deve ripensarsi e ritrovare il suo spirito di pace e di cooperazione con le nuove aree mondiali emergenti, lasciandosi alle spalle i vecchi mercati ricchi dell’Occidente. Insistere sul modello della guerra e della competitività significa condannarsi al suicidio e alla marginalità sia verso l’Occidente che verso l’Oriente. La cooperazione con le nuove aree in crescita non si ottiene con la competitività, ma con rapporti diretti e di cooperazione tra Stati, cioè sullo scambio reale di capacità e di beni e con la messa in comune delle risorse disponibili.

La classe dirigente politica e imprenditoriale che abbiamo è quella che è sopravvissuta alla guerra condotta contro il sistema italiano dagli anni cinquanta in poi dagli Stati uniti, Francia e Germania, e che continua oggi. Questa guerra è stata condotta prima con l’eliminazione fisica di personaggi scomodi come Mattei ed Olivetti, poi con la distruzione del sistema politico italiano negli anni novanta e prosegue ancora oggi. La corruzione attuale è la conseguenza di questi sviluppi e di come, attraverso i fiumi di denaro riversati sui politici e sulle istituzioni, se ne è ottenuto il silenzio e la collusione. La reazione popolare degli ultimi anni, espressa dalle ultime elezioni, dimostra che il limite della sopportazione è stato raggiunto e dimostra pure il fallimento di questi piani di destabilizzazione politica e di marginalizzazione economica del paese.

A chi avanzava riserve critiche sulle forme dell’integrazione europea si rispondeva che queste volevano far “sprofondare” l’Italia nel Mediterraneo. Ebbene, è proprio l’adesione acritica alle strategie della Globalizzazione e dell’Ue che sta facendo sprofondare l’Italia nel “sottosviluppo”. Ma l’Italia è un paese forte e le reazioni sociali e politiche che si annunciano lo dimostrano. Il successo di questa resistenza è anche la sola speranza offerta ai nostri giovani.

Questa crisi si fermerà quando i 4/5 della popolazione saranno ridotti in condizioni di povertà e marginalizzazione. Un percorso avviato, ma che richiede tempo. La “ripresa” sarà una stabilizzazione e istituzionalizzazione della povertà e della dipendenza politica del paese dai centri finanziari. Che questo possa avvenire in forma “pacifica” è da dimostrare. La vera ripresa ci può essere solo se il 99 per cento degli esclusi riprende il controllo del potere politico ed economico. Le forme in cui questo avverrà non saranno indolori per le vecchie classi dirigenti e per questo si oppongono con tutti gli strumenti a disposizione. La forza obiettiva di questo cambiamento dipende dal fatto che l’alternativa a una vera ripresa è lo scenario dell’implosione dell’Europa sul modello iugoslavo. La preferenza per una soluzione, anche europea, negoziata e con un cambio di indirizzo dovrebbe apparire ovvia e di buon senso, oltre che più giusta. Raramente l’equità e la giustizia prevalgono sugli interessi costituiti, ma noi speriamo e crediamo che questa sia una di quelle rare volte ...

Contenuti liberamente estratti dall'intervista a Bruno Amoroso a cura della rivista AltreStorie: L’uscita dal capitalismo

lunedì 10 giugno 2013

GAT: Gruppi di Acquisto Terreni

“Invece di avere soldi in banca, puoi diventare proprietario, insieme a noi, di un’azienda agricola nella Maremma Toscana e dare il tuo contributo a cambiare il mondo: metodi di produzione naturali per preservare l’ambiente e la qualità dei prodotti”.

E’ la filosofia che sta alla base di Gat Toscana, Gruppo d’Acquisto Terreni (Scansano, Gr), che mettono insieme, attraverso l’acquisto di quote di una società agricola a responsabilità limitata, agricoltori e in genere persone che hanno voglia o necessità di investire sulla terra. Attualmente i terreni acquistati si estendono su una superficie di 67 ettari (ogni socio investe circa 11 mila euro), ma è in fase di acquisto un altro terreno di 105 ettari.

L’acquisto condiviso di una tenuta agricola a scopo di investimento da parte di piccoli investitori ha obiettivi economici (difesa del valore dell’investimento, incremento patrimoniale, ricavo di un eventuale reddito dalla produzione agricola) e obiettivi etici (gestione etica ed ecologica, condivisione di valori e visione, avvicinamento dell’agricoltura ad una platea cittadina, disintermediazione tra produttore e consumatore, vendita di prodotti biologici e sostegno di un’agricoltura eco-compatibile).

 “Le aziende agricole che abbiamo costituito – spiegano i responsabili di Gat – sono coltivate con metodi biologici e gestite a filiera corta. Puntiamo a una nuova alleanza tra produttori e consumatori, in modo che i consumatori non siano l’ultimo anello della catena distributiva, ma diventino co-produttori. Tutti i soci investono la stessa somma. Sono necessari tra 50 e 100 soci per la costituzione di un nuovo Gat”.

Tratto da http://www.tsdtv.it/blog/2013/05/14/a-terra-futura-arrivano-i-gat-gruppi-di-acquisto-terreni/

Election week per i cittadini di Capannori (LU)

Oggi a Capannori, provincia di Lucca, iniziano le votazioni ...

Eh no, vi sbagliate, direte voi, oggi si chiudono le votazioni, alle 15:00 e poi inizia lo scrutinio delle schede ... 

Eh, no, no, non stiamo parlando di elezioni amministrative, quelle che si tengono, di regola, ogni 5 anni, stiamo parlando dell'election week, la settimana durante la quale potranno votare tutti i cittadini residenti nel Comune di Capannori, italiani e stranieri, compresi i minorenni che compiranno il 16° anno di età entro il 16 giugno 2013 (ultimo giorno di votazione).

Per cosa sono chiamati a votare i cittadini di Capannori?

Ciascun elettore potrà esprimere un solo voto per uno degli 11 progetti elaborati dai 90 cittadini che hanno preso parte alla seconda edizione di Dire Fare Partecipare, il bilancio socio partecipativo del Comune di Capannori.
Progetti per i quali il Comune ha messo a disposizione 500 mila euro.
Si tratta di un percorso di democrazia diretta portato avanti dall’amministrazione Del Ghingaro, culminato con la presentazione delle proposte progettuali alla cittadinanza durante un incontro pubblico che si è tenuto venerdì 7 giugno.
Si potrà votare sia recandosi ai seggi allestiti nella sede comunale e nelle sedi delle ex circoscrizioni, sia attraverso internet.

Per maggiori informazioni, continuate a leggere qui:

http://www.comune.capannori.lu.it/node/13236

martedì 4 giugno 2013

Ascoltare il corpo, ciò che ricorda e insegna

Il limite e la potenza

Per ricreare lavoro e sviluppo dobbiamo trovare un nuovo rapporto con il corpo. Con quello reale però, non con quelli immaginari e immaginati, nostri e degli altri, che esaltiamo, aduliamo, idolatriamo, consumiamo e auto-consumiamo come merci finché giovani e fiorenti, e che poi rifiutiamo, in noi e negli altri, quando si ammalano, appassiscono, invecchiano. Il tema del corpo, in particolare della sua eclissi, è fondamentale per comprendere anche alcune dinamiche decisive nel mondo della grande impresa e della grande finanza. Le istituzioni, economiche e di ogni tipo, possono diventare disumane quando perdono di vista l’essere umano concreto, quindi corporeo.
La cultura contadina e quella della fabbrica sono state culture dure ma umane, anche perché erano basate su incontri, e scontri, tra esseri umani in carne ed ossa.
Quando i lavoratori, i clienti e i fornitori, e magari i colleghi, diventano invece realtà astratte e lontane, e così chi decide su di loro non li incontra e non li vede (se non, magari, in teleconferenza), accade che le persone inesorabilmente diventino soltanto numeri, algoritmi, costi.

Perdono il corpo, e quindi non sono più veramente persone.

Quando dell’altro non vedo il volto, il colore delle guance, il luccichio degli occhi, non sento il suo odore; quando non gli stringo la mano e sento se è sudata o tremula, diventa impossibile fare scelte giuste e buone che riguardano quelle persone. Si tagliano così 'teste', perché non sono teste di persone vere, ma quelle di pupazzi, di icone sul computer, di risorse umane. Ma quando non si vede nell’altro il suo corpo non si vede nulla di veramente umano, perché dire essere umano è dire corpo.

L’umile corpo dice meglio e più di trattati di teologia o di filosofia, la ricca ambivalenza della condizione umana: qualcosa fragile come l’erba del campo, ma fatto «poco meno degli angeli» (salmo 8). Il corpo è quello aurorale del Cantico ma anche quello declinante del Qoèlet: solo insieme capiamo cosa sia veramente il corpo e la relazione umana. Al tramonto, anche quello del corpo, si vedono orizzonti invisibili all’aurora. È la consapevolezza carnale di questa nostra ambivalenza che ci impedisce di sentirci angeli senza corpo e quindi immortali, o solo erba da calpestare. Prendere sul serio il corpo significa dare dignità a tutti i suoi sensi, perché soltanto gli incontri che li attivano tutti e cinque sono incontri veramente e pienamente umani. Compreso il senso del gusto: è ben noto che le comunità umane - dalla famiglia alle comunità religiose alle imprese - entrano in crisi quando non mangiano più assieme. Far mangiare nella stessa tavola Don Abbondio e Agnese, manager e operai, è operazione tra le più difficili e rare.

È il corpo che dice il limite nostro e degli altri, quindi la vera alterità e reciprocità. Chi non ha fatto la (triste) esperienza di scrivere e inviare, in preda a una crisi di permalosità, email o sms che contenevano parole e 'toni' che non avremmo detto, o avremmo detto diversamente e meglio, se avessimo avuto di fronte l’altro in carne ed ossa? Espressioni come 'ti voglio bene' o 'lasciami in pace' dicono realtà molto diverse se scritte pigiando su una tastiera, o pronunciate guardando l’altro negli occhi, o, nel primo caso, prendendogli la mano. Non saremo capaci di un nuovo welfare, tantomeno economicamente sostenibile, e quindi di un nuovo patto sociale per la cura e per la sanità, se non troveremo una nuova amicizia con il corpo in tutte le sue stagioni, con i suoi limiti. Un malato davvero incurabile è chi non accetta l’invecchiamento, il decadimento e la morte, cioè la legge del corpo e il suo tipico linguaggio. Non ci si salva veramente dalle malattie amputando corpi ancora sani, ma accogliendo, facendo entrare dentro la nostra casa, abitando, la realtà del limite, e quindi della sofferenza, della vulnerabilità, della ferita (vulnus), e della morte, che solo così può diventare «sorella nostra morte corporale».

La prima e più profonda conoscenza del mondo passa per il corpo, e non solo per i bambini.

Conosciamo le cose toccandole, imponendo su di loro le mani. Il lavoro è in crisi perché è in crisi il corpo vero, le sue mani e la sua tipica conoscenza feconda. Non ho mai conosciuto un intellettuale generativo di vita, che prima di scrivere parole non le concepisse (concetti) nel travaglio.

La nostra civiltà non sarà mai una civiltà capace di fedeltà finché non si riconcilierà con il corpo in tutte le sue stagioni. Ogni patto, a partire dal matrimonio, è un sì detto anche a un corpo, alle sue benedizioni e alle sue ferite: è sempre una fedeltà incarnata.

Come ogni vera riconciliazione ha bisogno di lunghi abbracci e di pianti comuni: non bastano telefonate, email, skype, lettere di scuse degli avvocati. «E piansero insieme», ci dice il libro della Genesi a commento della riconciliazione tra Giacobbe e suo fratello Esaù, dopo lunghe lotte, ferite e inganni.

Ogni cultura che è stata capace di risorgere ha saputo prima riconciliarsi con il limite e con la morte, perché ogni vera resurrezione porta in sé le stigmate delle ferite.

Dobbiamo riconciliarci con il corpo, se vogliamo riapprendere l’arte delle relazioni incarnate, le sole vere, un’arte che oggi ha pochi allievi anche perché rarissimi sono i maestri. E così assistiamo a un crescente analfabetismo relazionale, che sovente è direttamente proporzionale al ruolo occupato nella gerarchia aziendale e organizzativa. Sono le donne, in modo speciale e unico le madri, le sapienti del corpo, del suo limite e nella sua potenza vitale straordinaria. Come lo sono gli infermieri e le infermiere, che i malati li conoscono perché - e quando - li toccano. «La prima cura è il medico», mi disse un dottore quando venne a casa per curarmi e i sintomi sparirono non appena iniziò a visitarmi. Nei consigli di amministrazione degli ospedali vorrei vedere le infermiere, le suore e i carismi che hanno occhi capaci di vedere la benedizione oltre la ferita del corpo, posti oggi occupati da persone, lautamente remunerate, che in troppi casi i malati veri non li vedono, né tantomeno li toccano. Rimettiamoci allora all’ascolto del corpo, di tutto il corpo e di tutti i corpi: hanno ancora tante cose da raccontarci.

Molte dimenticate, alcune bellissime. Tutte essenziali per la qualità della nostra vita.

Luigino Bruni

da Avvenire del 2 giugno 2013 © riproduzione riservata

sabato 1 giugno 2013

Se il Pianeta spreca il Cibo

Liberamente adattato dall'articolo:

“SE IL PIANETA SPRECA IL CIBO”

di CARLO PETRINI E ACHIM STEINER

da "La Repubblica" del 25 maggio 2013

Ventimila persone. Se ieri si fosse verificato un qualche tipo di disastro, come un terremoto o un’alluvione, che avesse causato la morte di 20mila persone, oggi ne parlerebbero tutti i giornali, tutte le tv; ne parleremmo tutti noi.
Ieri sono morte più di 20mila persone. Di fame. E oggi non ne parla nessuno.
Sempre ieri, con il cibo che l’Europa ha sprecato in 24 ore, si sarebbero sfamate 200mila persone. Parte della terra e delle risorse e delle energie con cui abbiamo prodotto il cibo che abbiamo mangiato appartengono a quelle persone. Così come appartengono a loro terra energie e risorse utilizzate per produrre il cibo che ieri abbiamo sprecato.
Il nostro cibo viene sprecato ad ogni passaggio e ad ogni fase della sua produzione. Ogni volta un po’. E per ragioni diverse avviene in tutto il mondo, anche nel mondo povero. La “geografia” dello spreco vede, nelle diverse aree del pianeta, picchi in fasi diverse della filiera, ma il risultato non cambia: un terzo del cibo che globalmente viene prodotto non nutre nessuno.
E un cibo che non nutre nessuno non è solo inutile, è anche dannoso. Ed è la dimostrazione che il sistema “moderno”, “razionale” di produrre e distribuire cibo è un sistema basato sullo sperpero dei beni comuni a vantaggio di profitti privati.
Il cibo che non nutrirà nessuno ha usato risorse naturali, ha usato tempo, ha usato energia, ha usato acqua, sole, salute pubblica, cultura, creatività, ricerca. E per qualche perversa ragione si è creata una situazione per cui buttare tutto questo nella spazzatura a qualcuno conviene.
Ovvero: a qualcuno conviene che muoiano ogni giorno 20mila persone, che una persona su 7 ogni sera vada a dormire avendo fame; a qualcuno conviene produrre in modo incosciente per poi vendere in modo insensato; e a qualcun altro ancora conviene portare tutto in discarica in modo sconsiderato, rapinando ancora risorse, energia e tempo; a nessuno conviene acquistare in modo sconsiderato per poi buttare in modo sconsiderato, ma a qualcuno … piace, oppure lo trova normale, o inevitabile, o un segnale di benessere. Quando si parla di spreco al consumo, non si parla solo delle famiglie, dei privati. Si parla degli hotel, dei ristoranti, delle mense scolastiche, della grande distribuzione, di tutte quelle situazioni in cui il consumo è sconnesso dalle relazioni.
Relazioni tra chi consuma e relazioni tra chi consuma, chi produce, chi trasforma, chi vende, chi comunica. Quando queste relazioni esistono si parla di Comunità del Cibo. E le comunità non sprecano il cibo, lo consumano con modalità conviviali.

27/05/2013 - Think.Eat.Save: Reduce Your Footprint) - in prima fila con UNEP e Slow Food per combattere lo spreco di cibo

mercoledì 29 maggio 2013

Come sarà la SCUOLA DEL FUTURO?

Ricevo e pubblico una bella ed interessante missiva che arriva dalla firma in calce al presente post.

Cari Genitori,

il mondo intero, dalla Cina agli USA, sta considerando come ricostruire il sistema scolastico in una nuova era totalmente diversa da quando, nell'800, la quasi totalità delle persone era analfabeta e le scuole furono concepite sul modello delle caserme.

Vi allego l'articolo "LA SCUOLA DEL FUTURO", pubblicato sulla rivista l'Internazionale del 10 maggio u.s., scritto dal saggista e docente universitario tedesco Richard D. Precht.

Vi trascrivo alcuni passaggi mentre lascio a voi leggere l'intero articolo:

Le neuroscienze e la psicologia dello sviluppo e dell'apprendimento ci permettono (oggi) di parlare di "un'istruzione adatta al cervello" che detti le regole del gioco dell'apprendimento sostenibile.

La scuola del futuro rinuncerà alle classi divise per età che costringono tutti a imparare allo stesso ritmo (...) più importante dell'età sono gli interessi simili che si possono organizzare in gruppi di studio.

Oggi quasi tutti gli edifici scolastici somigliano a ospedali o caserme (...) la scuola moderna fonda la sua architettura sulle esigenze degli esseri umani.

Il sistema dei voti risale a un'epoca di ignoranza in campo psicologico e pedagogico.

Per il mondo del lavoro le pagelle con i voti non hanno alcun significato.

Nell'interesse dei nostri figli e dei nostri insegnanti vale la pena battersi affinché la politica dell'istruzione smetta di concentrarsi sul presente e si indirizzi finalmente e coerentemente verso il futuro.

A VOI LE VOSTRE RIFLESSIONI!

Vi saluto cordialmente!


Arrigo Speziali-Direttore Didattico
Associazione Culturale Linguistica Educational
Via Roma, 54
18038 San Remo (IM)

Tel: 0184 506070
Email: speziali@acle.it
Website:  www.acle.it

"Prima ti ignoreranno! Poi ti derideranno! Poi ti combatteranno! E alla fine tu vincerai!!!" (Gandhi)

domenica 26 maggio 2013

Quorum zero: verso la democrazia diretta con una proposta di legge di iniziativa popolare

Alla Camera la presentazione della proposta di legge di iniziativa popolare “Quorum Zero e Più Democrazia”: sostegno dal M5S, per ora silenzio dagli altri partiti. Tra le misure l'abolizione del quorum e la possibilità di far scegliere ai cittadini quanto pagare i parlamentari.
 
Il 22 maggio scorso è stata presentata, alla Camera dei Deputati la proposta di legge di iniziativa popolare “Quorum Zero e Più Democrazia”, con la partecipazione dei membri del comitato promotore Gianni Ceri, Dario Rinco ed Emanuele Sarto, nonché del capogruppo al Senato della Repubblica per il Movimento 5 Stelle Vito Crimi. Si tratta di una proposta che ha “l'obiettivo di modificare alcuni articoli della Costituzione e di introdurne nuovi, per migliorare gli strumenti di democrazia diretta già utilizzati in altre nazioni“. Per farlo è stato messo nero su bianco un progetto estremamente articolato, sottoposto alla valutazione dei cittadini che fino al 17 luglio 2012 hanno avuto la possibilità di apporre la propria firma presso gli uffici di alcuni Comuni (l'elenco parziale è riportato qui). Sul sito ufficiale dell'iniziativa è presente una sintesi per punti del testo presentato, tra cui spiccano certamente alcuni passaggi:
  • Abolizione del quorum dai referendum.
  • Mandato e Revoca (permette agli elettori di allontanare e sostituire un amministratore eletto, sia a livello locale che statale).
  • Indennità dei membri del parlamento (sono gli elettori, in fase di consultazione ad indicare quanto percepiranno i parlamentari che li rappresentano).
  • Referendum confermativo e obbligatorio (chiediamo che ogni legge elaborata dal parlamento se i cittadini lo desiderano, con regole precise e un adeguato numero di firme, possa essere posta a votazione di tutta la cittadinanza).
  • Promulgazioni leggi e risultati referendum (si propone di impedire che una legge abrogata con referendum confermativo possa essere ripresentata prima di 5 anni).
  • Spazi pubblici gratuiti per la discussione delle iniziative e referendum.
L'iniziativa del Comitato, che si dichiara “apartitico” e parte da una serie di associazioni e di gruppi sui territori, ha ricevuto il sostegno del Movimento 5 Stelle, esplicitato da Vito Crimi nel corso della conferenza stampa: “Appoggiamo la legge d’iniziativa popolare ‘Quorum zero’ e faremo in modo che possa essere discussa in Parlamento il più presto possibile. Mai una legge di iniziativa popolare costituzionale è arrivata a compimento“. È chiaro che, come anticipato nel corso di una conferenza stampa in cui non sono mancati toni polemici nei confronti di giornalisti “disattenti”, il percorso resta lungo e tortuoso, dal momento che si rendono necessarie modifiche all'assetto costituzionale. Tuttavia, come notano i promotori, lo stesso ministro per le Riforme Quagliariello ha sottolineato recentemente che è necessario rivedere “gli strumenti di democrazia diretta, al fine di favorire una più intensa e più responsabile partecipazione dei cittadini alla vita politica della Nazione“. Insomma, se la strada resta lunga e complessa (al di là della possibile presentazione alle Camere di un Odg che recepisca le proposte del Comitato), la “volontà politica” di recepire le istanze per il superamento/miglioramento dell'attuale forma di democrazia rappresentativa e la predisposizione ad impostare strumenti di democrazia diretta possono essere i primi passi essenziali per ricucire quello strappo tra cittadini, politica ed istituzioni che da anni tiene in scacco il Paese.

Contenuto liberamente estratto (con modifiche) dall'articolo pubblicato sul sito:
http://www.fanpage.it/quorum-zero-verso-la-democrazia-diretta-con-una-proposta-di-legge-di-iniziativa-popolare/

mercoledì 22 maggio 2013

Nasce la SEC: Scuola di Economia Civile




Il testo dell’intervista di Massimo Calvi al prof. Zamagni su Avvenire del 17.05.2013

La crisi dimostra il fallimento dei modelli economici che hanno dominato negli ultimi decenni e prova che è ormai necessario riscrivere i manuali di economia. C’è un contesto nuovo ed è il modello dell’economia civile di mercato ciò a cui dobbiamo guardare». L’economista Stefano Zamagni è stato tra i primi in Italia a riscoprire il valore e la modernità di quella che nel ’700 Antonio Genovesi battezzava col nome di "economia civile", attualizzando l’idea che l’homo oeconomicus si debba nutrire anche di relazioni, motivazioni, fiducia, e che l’attività economica abbia bisogno di virtù civili, di tendere al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali. Concetti verso i quali sta crescendo l’attenzione in tutto il mondo, e che risuonano nelle parole pronunciate ieri da Papa Francesco sulla tirannia del denaro come dato di questa crisi finanziaria, caratterizzata dal rifiuto dell’etica e della solidarietà, dalla negazione del primato dell’uomo. Ora i princìpi di un nuovo possibile modo di agire nel mercato, nel rispetto della persona umana, potranno essere diffusi in modo più strutturato grazie alla nascita di una scuola dedicata, la «Sec - Scuola di economia civile», che si celebra domenica a Incisa Valdarno (Firenze), e della quale Zamagni è presidente del comitato scientifico d’indirizzo.

Professore, perché oggi c’è bisogno di ripartire guardando all’economia civile?

Il dato di partenza è la crisi del modello neoliberista teorizzato che ha dominato negli ultimi 50 anni. È una visione che dicotomizza la società, definendo il mercato come il luogo dell’utilitarismo e lasciando ad altri ambiti della vita sociale questioni come l’altruismo e la filantropia.. Un modello che rappresenta il massimo dell’irresponsabilità. Ma anche l’economia sociale di mercato di marca tedesca, dove lo Stato supplisce ai limiti del libero mercato, è entrato in crisi: può funzionare per la Germania, ma non per altri Paesi, come stiamo vedendo in Italia, in Gran Bretagna o altrove.

Cosa si intende per economia civile, e in che cosa supera altri modelli?

L’economia civile non contrappone Stato e mercato o mercato e società civile, cioè non prevede codici differenti di azione, ma in linea con la Dottrina sociale della Chiesa punta a unirli. Inoltre teorizza che anche nella normale attività di impresa vi debba essere spazio per concetti come reciprocità, rispetto della persona, simpatia. Oggi invece si ritiene ancora che l’impresa possa operare nel mercato come meglio crede, o non rispettare in pieno la dignità dei lavoratori, e poi magari fare della filantropia oppure concedere in cambio il nido per i figli dei dipendenti. Ecco, non dovrebbe funzionare così. Un altro aspetto riguarda la società civile organizzata – cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, fondazioni – che non viene confinata al ruolo di soggetto incaricato di ridistribuire il sovrappiù, come in altri sistemi economici, ma è valorizzata come soggetto economico vero e proprio, messa al lavoro.

A proposito di lavoro, quali risposte si possono dare di fronte a una realtà che presenta situazione drammatiche, in particolare per i giovani?
Sappiamo che il capitalismo oggi non riesce a occupare più dell’80% della forza lavoro. Il problema è che cosa fare con l’altro 20%. Li abbandoniamo condannandoli alla precarietà eterna, oppure concediamo sussidi che in ogni caso prima o poi finiscono? La risposta degli economisti civili è diversa e porta a considerare forme di impresa, come ad esempio le cooperative sociali, alle quali affidare il compito di garantire la piena occupazione del sistema, orientandole sull’offerta di beni comuni, beni pubblici e beni relazionali.

Questo vuol dire che la società civile diventa protagonista di un nuovo modello di Stato sociale?

Sì, perché tanto il modello neoliberista quanto quello socialdemocratico di welfare non funzionano più. Il primo non assicura l’universalità dello Stato sociale, l’altro non garantisce la qualità. La soluzione è il welfare civile, fondato sul principio di sussidiarietà circolare, cioè sulla collaborazione tra tre soggetti: ente pubblico, imprese e società civile (o Terzo settore). Una risposta efficace ai vincoli di bilancio. Non è una questione di principio, ma una necessità. È un approccio anti-ideologico, un’idea nuova di economia e di società. Anche la Gran Bretagna, con la Big Society, sta guardando a questa soluzione. Che appartiene già alla realtà e alla tradizione italiana. Si tratta solo di riscoprirla e valorizzarla. La Scuola nasce per questo.

A chi si rivolge la Scuola di economia civile?

A manager e imprenditori che desiderano cambiare il modo di fare impresa o ai giovani stanchi di studiare una teoria economica che fa acqua da tutte le parti. E poi agli amministratori locali interessati a trovare nuove strade per coniugare la carenza di risorse con la necessità di offrire servizi di qualità a tutta la popolazione. L’attività partirà dall’autunno, al progetto hanno già aderito una quarantina di accademici in tutta Italia. L’ambizione è aprire una nuova stagione del pensiero economico.

Massimo Calvi

mercoledì 8 maggio 2013

Ue apre un'indagine sulla fabbrica dei veleni di Pernumia (PD)

Comunicato stampa del 6 maggio 2013

L'Ue apre un'indagine sulla fabbrica dei veleni di Pernumia (PD)

La Commissione europea chiede informazioni sulla bonifica della ex C&C. E' la risposta del Commissario Ue all'Ambiente all'eurodeputato Andrea Zanoni. “Da anni l'inerzia delle autorità locali mette a repentaglio l'ambiente e la salute dei cittadini della zona”.

“La Commissione chiederà alle autorità italiane di fornire ulteriori informazioni, compreso sulle eventuali misure che intendono adottare per risolvere il problema cui si fa riferimento nell’interrogazione” sullo stoccaggio abusivo e scriteriato di rifiuti speciali pericolosi nel fatiscente complesso di edifici di un'ex impresa a Pernumia (PD). E' la risposta del Commissario Ue all'Ambiente Janez Potočnik all'interrogazione presentata da Andrea Zanoni, eurodeputato ALDE e membro della commissione ENVI Ambiente, Salute Pubblica e Sicurezza Alimentare al Parlamento europeo. “Adesso vediamo se, grazie all'indagine che la Commissione sta per aprire, le autorità locali faranno finalmente la scelta responsabile di mettere una volta per tutte in sicurezza l'area nell'interesse sia dell'ambiente che della salute degli abitanti della zona”.

Zanoni aveva denunciato in Europa i dubbi sul rispetto della normativa comunitaria in materia di rifiuti, discariche, acqua e aria, da parte delleautorità locali nella gestione dello smantellamento della fabbrica di veleni a Pernumia (PD). “Per anni la fabbrica C&C di Pernumia ha giocato sulla pelle dei cittadini. Adesso il suo stato attuale di totale abbandono e il mancato intervento delle autorità rischiano di far traboccare il vaso”.

Il 20 marzo scorso l'eurodeputato ha accompagnato i membri del Comitato Popolare SOS C&C nella consegna della petizione (2.400 firme) contro la discarica rifiuti tossici di Pernumia in commissione PETI Petizioni al Parlamento europeo di Bruxelles (FOTO). Il 15 febbraio precedente, Zanoni aveva incontrato i membri del Comitato durante un sopralluogo alla fabbrica dei veleni (VIDEO).

“A Pernumia si trovano i fabbricati fatiscenti della ex C&C, impresa ora cessata, dedita in passato allo svolgimento di attività di recupero di scarti industriali, ma successivamente implicata in un traffico illecito di rifiuti tossici, vicenda che ha portato al sequestro dell’intera area nel 2005”, spiega Zanoni. “Da allora non è stato fatto molto, sono tutt’oggi stivate in modo incontrollato e non autorizzato 52.000 tonnellate di fanghi pericolosi, contenenti idrocarburi e metalli pesanti di vario genere. Purtroppo, ancora una volta, ci vuole l'intervento dell'Europa per spingere le autorità locali italiane ad agire per tutelare la salute dei cittadini”.

BACKGROUND

Gli edifici della ex C&C versano in uno stato di totale abbandono e degrado, presentando numerose aperture nel tetto (in amianto) e nella struttura portante che consentono al materiale tossico di disperdersi nell’ambiente circostante grazie all’azione di vento e pioggia, compiendo, quindi, un’incessante attività di contaminazione ambientale.

La struttura è ubicata in un’area sita a ridosso di una ZPS e rischia di contaminare direttamente i territori di ben tre comuni della provincia di Padova (Pernumia, Battaglia Terme e Due Carrare), con zone residenziali e zone agricole di pregio (radicchio bianco di Maserà, radicchio variegato di Castelfranco IGP). Inoltre dista appena trenta metri dal canale Vigenzone (utilizzato per l’irrigazione) e si trova in prossimità del bacino delle Terme Euganee (il più esteso d’Europa) e di alcune “ville venete”, edifici di alto valore storico e culturale (di grande interesse turistico).

L’area è a rischio di incendio (principio di incendio già accaduto nel 2007), di alluvione (rischio sfiorato nel 2010 e 2011), di subire trombe d’aria (eventi importanti si sono verificati in zona limitrofa nel 2010 e 2012) e di terremoto (visti gli eventi sismici che hanno colpito la vicina regione dell’Emilia Romagna nel 2012), accadimenti che sicuramente porterebbero a una massiccia dispersione nell’ambiente dei rifiuti tossici così approssimativamente stoccati.

Andrea Zanoni, deputato al Parlamento europeo

www.andreazanoni.it

martedì 30 aprile 2013

Siamo nel bel mezzo della I Guerra Globale

Vi domanderete: "ma cosa vai farneticando" ...
A mia parziale giustificazione riporto alcuni brani del discorso per la fiducia del Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato Enrico Letta. Ho evidenziato in neretto le parole che indicano l'eccezionalità e la drammaticità del momento storico.

"Quella del presidente Napolitano è stata – lo sappiamo – una “scelta eccezionale”. Eccezionale perché tale è il momento che l’Italia e l’Europa si trovano a vivere oggi. Di fronte all’emergenza il presidente della Repubblica ci ha invitato a parlare il linguaggio della verità. Ci ha chiesto di offrire in extremis, al Paese e al mondo, una testimonianza di volontà di servizio e senso di responsabilità. Ci ha concesso un’ultima opportunità. L’opportunità di dimostrarci degni del ruolo che la Costituzione ci riconosce come rappresentanti della nazione. Degni di servire il Paese – attraverso l’esempio, il rigore, le competenze – in una delle stagioni più complesse e dolorose della storia unitaria. Accogliendo il suo appello intendo rivolgermi a voi proprio con il linguaggio “sovversivo” della verità. Confessandovi che avverto fortissimi, in questo momento, la consapevolezza dei miei limiti e il peso della mia personale responsabilità, ma impegnandomi a fare di tutto affinché le mie spalle siano larghe e solide al punto da reggere le vesti di Presidente del Consiglio di un Governo che richiede, qui e oggi, la fiducia del Parlamento.

La prima verità è che la situazione economica dell’Italia è ancora grave. Abbiamo accumulato in passato un debito pubblico che grava come una macina sulle generazioni presenti e future, e che rischia di schiacciare per sempre le prospettive economiche del Paese. Il grande sforzo di risanamento compiuto dal precedente Governo, guidato dal senatore Mario Monti, è stato premessa della crescita in quanto la disciplina della finanza pubblica era e resta indispensabile per contenere i tassi di interesse e sventare possibili attacchi finanziari.

L’Europa è in crisi di legittimità ed efficacia proprio quando tutti i Paesi membri e tutti i cittadini ne hanno più bisogno. L’Europa può tornare ad essere motore di sviluppo sostenibile – e quindi di speranza e di costruzione di futuro – solo se finalmente si apre. Il destino di tutto il continente è strettamente legato. Non ci possono essere vincitori e vinti se l’Europa fallisce questa prova. Saremmo tutti perdenti: sia nel Sud che nel Nord del continente.

Di solo risanamento l’Italia muore. Dopo più di un decennio senza crescita le politiche per la ripresa non possono più attendere. Semplicemente: non c’è più tempo. Tanti cittadini e troppe famiglie sono in preda alla disperazione e allo scoramento. Pensiamo alla vulnerabilità individuale che nel disagio e nel vuoto di speranze rischia di tramutarsi in rabbia e in conflitto, come ci ricorda lo sconcertante fatto avvenuto ieri stesso dinanzi a Palazzo Chigi.

Senza crescita e coesione l’Italia è perduta. Il Paese, invece, può farcela. Ma per farcela deve ripartire. E per ripartire tutti devono essere motori di questa nuova energia positiva. L’architrave dell’esecutivo sarà l’impegno a essere seri e credibili sul risanamento e la tenuta dei conti pubblici. Basta coi debiti che troppe volte il nostro Paese ha scaricato sulle spalle e la vita delle generazioni successive. Quelle nuove, di generazioni, hanno imparato sulla propria pelle e non faranno lo stesso con i propri figli.

La ripresa ritornerà anche se i cittadini e gli imprenditori italiani e stranieri saranno convinti di potersi rimettere con fiducia ai tempi e al merito delle decisioni della giustizia italiana. E tutto questo funzionerà se la smetteremo di avere una situazione carceraria intollerabile ed eccessi di condanne da parte della Corte dei diritti dell’uomo. Ricordiamoci sempre che siamo il paese di Cesare Beccaria!

Quello generazionale non è certo solo un tema attinente al rinnovamento della classe dirigente, come troppo spesso emerge nel dibattito pubblico. È una questione drammatica che scontano sulla propria pelle milioni di giovani. Segnala bassi tassi di istruzione e di occupazione, porta con sé lo sconforto, e anche la rabbia, di chi non studia né lavora. Chiediamoci quanti bambini non nascono ogni anno, in Italia, per la precarietà che limita le scelte delle famiglie giovani. Non è solo demografia, è una ferita morale. Perché non devono esistere generazioni perdute, perché solo i giovani possono ricostruire questo Paese: le loro nuove esperienze e competenze ci raccontano un mondo che cambia, il loro mondo. Rinunciare ad investire su di loro è un suicidio economico. Ed è la certezza di decrescita, la più infelice.

L’intraprendenza dei giovani e la bellezza dei territori sono d’altra parte due risorse cruciali per il Mezzogiorno. In entrambi i casi un patrimonio dissipato, un giacimento inutilizzato di potenzialità. Dobbiamo mettere in condizione il Sud di crescere da solo, annullando i divari infrastrutturali e di ordine pubblico che l’hanno frenato, puntando sulle nuove imprese, in particolare le industrie culturali e creative, e sulla buona gestione dei fondi europei, come quella che ha caratterizzato l’operato del governo Monti.

Dobbiamo, soprattutto, evitare di continuare a mettere la testa sotto la sabbia come struzzi e riconoscere che il divario tra Nord e Sud del Paese è non un accidente storico o una condanna, ma il prodotto di decenni di inadempienze da parte delle classi dirigenti, a livello nazionale come a livello locale. E’ il risultato dell’azione della criminalità organizzata che, certo presente anche nel resto del Paese – in larghe parti del Mezzogiorno ha i connotati del controllo arrogante e quasi militare del territorio. E questo nonostante lo spirito di servizio e il sacrificio di tanti servitori dello Stato – magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine anzitutto – che troppo spesso abbiamo avuto la responsabilità di lasciare soli.

Ma permettetemi di soffermarmi un attimo sulla grande tragedia di questi tempi che d’altronde al Sud tocca punte di desolazione e allarme sociale: la questione del lavoro. È e sarà la prima priorità del mio governo. Solo col lavoro si può uscire da quest’incubo di impoverimento e imboccare la via di una crescita non fine a se stessa, ma volta a superare le ingiustizie e riportare dignità e benessere. Senza crescita, anche gli interventi di urgenza su cui ci siamo impegnati e che qui ribadisco – rifinanziamento delle casse integrazioni in deroga, superamento del precariato anche nella pubblica amministrazione – sarebbero insufficienti. In particolare, con i lavoratori esodati la comunità nazionale ha rotto un patto, e la soluzione strutturale di questo tema è un impegno prioritario di questo Governo.

Sicuramente è e deve essere un’eccezione la convergenza di forze politiche che si sono presentate come alternative alle elezioni. Ma è eccezionale che dalle urne, anche a causa della legge elettorale, non sia uscita alcuna maggioranza; è eccezionale l’emergenza economica che il governo dovrà affrontare; è eccezionale il fatto che sia necessario riscrivere alcune regole costituzionali. Credo quindi che le forze politiche che sostengono il governo stiano dimostrando un grande senso di responsabilità e di attaccamento alle istituzioni. Vent’anni di attacchi e delegittimazioni reciproche hanno eroso ogni capitale di fiducia nei rapporti tra i partiti e l’opinione pubblica, che è esausta, sempre più esausta, delle risse inconcludenti. Ho imparato da Nino Andreatta la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni. Se in questo momento ci concentriamo sulla politica, le nostre differenze ci immobilizzeranno. Se invece ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio al paese migliorando la vita dei cittadini.

Vedo oggi una via stretta, ma possibile, per una riforma anche radicale del sistema istituzionale e del sistema politico. Un imperativo deve essere chiaro a tutti noi fin dal primo momento: in questa materia negli ultimi decenni abbiamo assistito troppe volte all’avvio di percorsi riformatori che si presentavano come risolutori, che nelle intenzioni anche sincere di chi li proponeva, promettevano di regalarci istituzioni più efficienti e capaci di decidere, oltre che maggiormente vicine ai cittadini, e che invece si sono infranti contro veti reciproci, chiusure partigiane, prese di posizione strumentali e contrapposizioni dannose nonostante i reiterati richiami del Presidente della Repubblica.

L’Europa non è il passato, è il viaggio nel quale ci siamo imbarcati per arrivare nel futuro. L’Europa è lo spazio politico con cui rilanciare la speranza che ha animato la nostra società nella ricostruzione del dopoguerra. È lo spazio politico con cui mettere fine a questa guerra di stereotipi, di sfiducia e di timidezza, mentre la tragedia della disoccupazione giovanile mette un’intera generazione in trincea. L’Europa esiste solo al presente e al futuro, solo se alla storia scritta dai nonni e dai padri si affiancano le azioni dei figli e dei nipoti.