"io decido X Albignasego" è il nome del movimento civico che vuol dare la parola ai cittadini di Albignasego, comune della provincia di Padova ... e non solo!

sabato 30 novembre 2013

Lessico del ben-vivere sociale / 9

Avvenire del 24 novembre 2013

I legami ci fanno ricchi

di Luigino Bruni

Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione. Se non avessimo iniziato a co-operare (agire insieme) la vita in comune non sarebbe mai iniziata, e saremmo restati evolutivamente bloccati alla fase pre-umana. Ma come spesso succede per le grandi parole dell’umano, anche la cooperazione è ad un tempo una e molteplice, spesso ambivalente, e le sue forme più rilevanti sono quelle meno ovvie. Tutte le volte che esseri umani agiscono insieme e si coordinano per raggiungere un risultato comune mutuamente vantaggioso, abbiamo a che fare con la cooperazione.

Un esercito, una liturgia religiosa, una lezione a scuola, un’impresa, l’azione di governo, un sequestro di persona, sono tutte forme di cooperazione, ma si riferiscono a fenomeni umani molto diversi tra di loro. Da ciò deriva una prima conseguenza: non tutte le cooperazioni sono cosa buona, perché ci sono cooperazioni che sebbene aumentino i vantaggi dei soggetti coinvolti peggiorano il bene comune, perché danneggiano altri al di fuori di quella cooperazione. Per distinguere la buona dalla cattiva cooperazione è necessario innanzitutto guardare agli effetti che quella cooperazione intenzionalmente produce sulle persone esterne a quella cooperazione.

Lungo la storia, le teorie politiche ed economiche si sono suddivise in due grandi famiglie. Quelle che partono dall’ipotesi che l’essere umano non è naturalmente capace di cooperare, e quelle che invece rivendicano la natura cooperativa della persona. Il principale rappresentante della seconda tradizione è Aristotele: l’uomo è animale politico, cioè capace di dialogo con gli altri, di amicizia (philia) e di cooperazione per il bene della polis. L’esponente più radicale della prima tradizione dell’animale insocievole è Thomas Hobbes: “E’ vero che alcune creature viventi, come le api e le formiche, vivono insieme socialmente. Pertanto qualcuno vorrebbe sapere perché gli uomini non fanno lo stesso” (Il Leviatano, 1651). All’interno di questa tradizione anti-sociale si muove molta parte della filosofia politica e sociale moderna, mentre gli antichi e i medioevali (incluso San Tommaso) erano generalmente dalla parte di Aristotele. Potremmo anche dire che la principale domanda della teoria politica ed economica moderna è stato tentar di spiegare come possano emergere esiti cooperativi a partire da esseri umani che non sono capaci di cooperazione intenzionale, perché troppo dominati da interessi egoistici.

Molte teorie del ‘contratto sociale’ (non tutte) sono state la risposta della filosofia politica della modernità: individui egoisti, ma razionali, capiscono che è nel loro interesse dar vita ad una società civile con un contratto sociale artificiale. L’uomo naturale è incivile, e quindi la società civile è artificiale. La risposta della scienza economica moderna a quella stessa domanda sono le varie teorie della ‘mano invisibile’, dove il bene comune (‘la ricchezza delle nazioni’) non nasce dall’azione cooperativa intenzionale e naturale di animali sociali, ma dal gioco degli interessi privati di individui egoisti separati tra di loro. Alla base di queste due tradizioni ritroviamo la stessa ipotesi antropologica: l’essere umano è un ‘legno storto’ che, senza bisogno di raddrizzarlo, produce buone ‘città’ se è capace di dar vita a istituzioni artificiali (contratto sociale, mercato) che trasformano le passioni auto-interessate in bene comune.

E’ a questo punto che si svela un mistero del mercato. Anche la società di mercato ha una sua forma di cooperazione, alla quale però non è richiesta nessuna azione congiunta tra gli individui ‘cooperanti’. Quando entriamo in un negozio per acquistare del pane, quell’incontro tra l’acquirente e il venditore non è descritto né vissuto come un atto di cooperazione intenzionale: ciascuno cerca il proprio interesse e compie la contro-prestazione (denaro per pane; pane per denaro) solo come un mezzo per ottenere il proprio bene. Eppure quello scambio migliora la condizione di entrambi, grazie ad una forma di cooperazione che non richiede nessuna azione congiunta. Il bene comune diventa così la una somma di interessi privati di individui reciprocamente immuni che cooperano senza incontrarsi, toccarsi, guardarsi.

E’ all’interno dell’impresa dove invece ritroviamo la cooperazione intenzionale o forte, essendo l’impresa una rete di azioni congiunte e cooperative per obiettivi in massima parte comuni. Così, quando acquisto un biglietto Roma-Malaga, tra me e la compagnia aerea non c’è nessuna forma di cooperazione intenzionale ma solo interessi separati paralleli (viaggio e profitto); tra i membri dell’equipaggio di quel volo, però, deve esserci una cooperazione forte, esplicita e intenzionale. Da qui deriva che mentre (quasi) nessun economista scriverebbe una teoria dei mercati basata sull’etica delle virtù, sul lato delle teorie dell’impresa e delle organizzazioni sono ormai molte le ‘etiche degli affari’ fondate sull’etica delle virtù di Aristotele e Tommaso.

La divisione del lavoro nei mercati e nella grande società è una grande cooperazione involontaria e implicita; la divisione del lavoro dentro l’impresa, invece, è cooperazione in senso forte, un’azione volontaria congiunta. Il capitalismo di matrice anglosassone e protestante ha così dato vita ad un modello dicotomico, ad una riedizione della luterana (e agostiniana) ‘Dottrina dei due regni’. Nei mercati c’è la cooperazione implicita, ‘debole’ e non-intenzionale; nell’impresa, e in generale nelle organizzazioni, abbiamo invece la cooperazione esplicita, forte ed intenzionale – due cooperazioni, due ‘città’, profondamente e naturalmente diverse tra di loro.

Questa cooperazione non è però la sola possibile nei mercati. La versione europea della cooperazione nei mercati, in particolare quella latina, era diversa, perché la sua matrice culturale e religiosa non era individualistica, ma comunitaria. Qui la distinzione tra cooperazione ad intra (impresa) e cooperazione ad-extra (nei mercati) non è mai prevalsa - almeno fino a tempi recenti. E’ questa la tradizione della cosiddetta Economia civile, che ha letto l’intera economia e società come una faccenda di cooperazione e di reciprocità. L’impresa famigliare (in Italia ancora il 90% del settore privato), le cooperative, Adriano Olivetti, si spiegano prendendo sul serio la natura cooperativa e comunitaria dell’economia. Ecco perché il movimento cooperativo europeo è stato l’espressione più tipica dell’economia di mercato europea. Come lo sono (stati) i distretti industriali (da Prato per i filati, a Fermo per le scarpe), dove comunità intere sono diventate economia senza smettere di essere comunità. Così, il capitalismo USA ha come modello il mercato anonimo e cerca di “mercantizzare” (rendere mercato) anche l’impresa, che sempre più è vista come un nesso di contratti, una ‘commodity’ (merce), o un mercato con fornitori e clienti ‘interni’. Il modello europeo, invece, ha cercato di ‘comunitizzare’ (rendere comunità) il mercato, prendendo come modello di buona economia quello mutualistico e comunitario, esportandolo dall’impresa all’intera vita civile (cooperazione di credito e di consumo). Assumendosi i costi e i benefici di questa operazione: un’economia più densa di umanità e di gioia di vivere, ma anche di quelle ferite che gli incontri umani a tutto tondo portano inevitabilmente con sé.

Il modello USA oggi sta colonizzando anche gli ultimi territori di economia europea, anche perché la nostra tradizione comunitaria e cooperativa non è stata sempre all’altezza sul piano culturale e pratico, non si è sviluppata in tutte le regioni, e, in Italia, ha dovuto fare i conti con il trauma, non ancora del tutto elaborato, del fascismo, che si è auto-proclamato vero erede della tradizione dell’impresa cooperativa (il corporativismo). La ‘grande crisi’ che stiamo vivendo, però, ci dice che l’economia e la società fondate sulla cooperazione-senza-toccarsi possono produrre dei mostri, e che il business che è solo business alla fine diventa anti-business. L’ethos dell’Occidente è un intreccio di cooperazioni forti e deboli, di individui che fuggono dai lacci delle comunità in cerca di libertà, e di persone che per vivere bene liberamente si legano. In una fase della storia in cui il pendolo del mercato globale tende verso gli individui-senza-legami, l’Europa deve ricordare, custodendola e vivendola, la natura intrinsecamente civile e sociale dell’economia.

giovedì 21 novembre 2013

Quando la crisi morde loro banchettano

La crescita al primo posto.

Espressione udita pronunciare in radio, informazione pubblica.

Al primo posto ci chiedono di mettere una condizione che non c'è e che sappiamo impossibile da realizzare.
Quello che cresce è il debito e la disoccupazione.

Che ve ne pare?

Una situazione come questa ha un solo sbocco: l'implosione del sistema su se stesso.

La decrescita è già tra di noi: decrescita demografica, impoverimento culturale, esaurimento delle risorse ambientali, diminuzione di tutti gli indici della qualità della vita.

Aumenta l'aspettativa della durata della vita, ma sempre più medicalizzata, con costi per la sanità pubblica che non sono più sostenibili.

Il debito cresce perché cresce la massa monetaria che va ad arricchire la grande finanza internazionale, mentre impoverisce le famiglie, le imprese, le nazioni.

In Italia l'impresa era e rimane familiare.
C'è un'economia civile e cooperativa che sta soffrendo, come nelle doglie del parto.
Lo testimoniano i tanti fallimenti e i suicidi.

E' quest'ultimo modello di sviluppo economico - familiare e cooperativo - che deve crescere e tutto il resto deve diminuire, compresa la grande impresa di stato, che pubblica non è più.

Lo sapevate che la rete internet, quella che custodisce tutti i nostri preziosi dati sensibili, personali e familiari (con relative password), è totalmente in mano ad agenzie e aziende private, sparse sul globo?

Ciò che è pubblico è noto ed è nostro perché condiviso, ciò che è privato non è noto al pubblico, è a noi nascosto appunto perché ne siamo "privati".

C'è un solo business in crescita in questa contingenza, il business dei diseredati: il gioco d'azzardo.
Un business che ha raggiunto e superato un giro d'affari annuo di 90 miliardi (e questa è solo la punta dell'iceberg): 1500 euro a cranio, ma cosa c'è dentro quel cranio?

Cosa ci dice tutto questo?
La rete in cui siamo immersi quotidianamente ci somministra un'illusione: di essere capaci di oltrepassare i limiti imposti dalla nostra natura umana e dall'ambiente in cui siamo immersi.

Ma noi rimaniamo noi, perché fatti di carne e di sangue.

Un'evidente dicotomia tra autopercezione e realtà, è l'"inner divide", la divisione interiore che deriva da una condizione di deperimento delle facoltà mentali.

Desideriamo essere perfetti, ma non abbiamo in noi la forza per realizzarci.
Non da soli.
Non isolati a subire la malia della pubblicità.
Se esiste una "pubblicità progresso", ne deduco che tutto il resto è regresso.

I Gruppi di Acquisto Solidale costituiscono un sostegno concreto, solido e costante alla rete di mini e micro aziende che dovranno diventare il nostro tessuto produttivo del futuro.

Di tutto il resto rimarrà poco e niente.

mercoledì 20 novembre 2013

Lessico del ben vivere sociale / 8

Avvenire del 17 novembre 2013

Qualcosa di unico

di Luigino Bruni

Sta emergendo una nuova domanda di partecipazione nel consumo, nel risparmio e nell’uso dei beni. Una differenza cruciale, ad esempio, tra l’internet di 10-15 anni fa, abitato da siti web e dalle email, e il web dei social media e delle Apps, è un maggior coinvolgimento e protagonismo di noi abitanti della rete. Analogamente, la tv oggi non manda in onda soltanto programmi per ‘telespettatori’, ma ci chiede di votare il cantante o il giocatore migliore. E la cosa interessante è che la gente partecipa, investe tempo per dire la propria opinione e per sentirsi parte attiva di una nuova forma di comunicazione: per fare un’esperienza.

Molti dedichiamo tempo, e molto, per scrivere o arricchire, in modo anonimo, le voci di Wikipedia (l’enciclopedia del web), o per migliorare un software libero. È come se stessimo creando nuove ‘piazze’, dove la gente sta tornando, diversamente e con gusto, a parlare, a perder tempo disinteressatamente. Un fenomeno di certo ambivalente, ma l’ambivalenza può essere anche l’inizio di un discorso generativo.

Agli uomini e alle donne il solo consumo dei beni non è mai bastato. Da animali simbolici e ideologici quali siamo, abbiamo sempre chiesto di più alle nostre merci: dallo status sociale alla rappresentazione di futuri migliori durante presenti indigenti. Tramite i beni abbiamo voluto parlare, raccontare storie, raccontarci agli altri, e ascoltare gli altri parlare. Fare esperienze. Alcuni beni, poi, sono talmente legati ad un’esperienza che gli economisti li hanno chiamati “beni d’esperienza” (experience goods), quei beni che riusciamo a capire e valutare solo dopo averne fatto esperienza diretta e personale. Sono beni di esperienza quasi tutti i beni culturali e turistici. Posso valutare se ho speso bene il biglietto per un museo mentre lo visito, non prima; capisco se il prezzo di quel week-end all’agriturismo era congruo solo quando mi trovo sul posto, e vedo paesaggio, ambiente e incontro i padroni di casa. Il mercato non ama questa incertezza, e cerca di offrirci alcuni degli elementi decisivi per valutare ex-ante un hotel o un ristorante. Ecco allora il sito internet sempre più ricco di foto, e soprattutto il peso crescente delle recensioni dei clienti, oggi talmente importanti che rischiamo di veder nascere un mercato incivile di compravendita di recensioni positive, e negative (per i concorrenti).

E qui si aprono discorsi centrali per comprendere l’evoluzione del nostro sistema economico e sociale. Innanzitutto nei beni di esperienza sono gli elementi di contorno quelli che risultano essere decisivi. Posso avere il più bel sito archeologico del mondo, ma se non c’è un intero sistema territoriale (trasporti, hotel …) che funziona, il valore di quel bene precipita, e porta giù con sé il valore d’intere regioni. Posso trovare agriturismi marchigiani in ottime ‘location’, ma se quando arrivo non trovo quello stile relazionale frutto di secoli di cultura dell’accoglienza, che si traduce in mille dettagli concreti, il valore di quella vacanza scompare o si ridimensiona molto. In questi beni si coglie nella sua purezza uno dei tratti più complessi e misteriosi della nostra società di mercato. Quando un inglese viene in vacanza in Toscana o in Andalusia, va in cerca anche di dimensioni intrinseche a quelle culture, che non sono semplici merci. Certo, sa che il resort e il ristorante tipico sono imprese commerciali e che quindi rispondono alla logica del profitto, ma parte del benessere di quella vacanza, a volte la parte più consistente, dipende dalla presenza di contesti culturali, che sebbene entrino (eccome!) nel prezzo di quell’alloggio e di quel pranzo non sono semplici merci ‘prodotte’ da quegli imprenditori a mero scopo di lucro. Tanto che il valore di assistere ad una vera sagra paesana o ad una autentica rievocazione storica è immensamente maggiore di quelle rappresentazioni folkoristiche organizzate artificialmente, e a pagamento, dal ristoratore. Nei nostri territori esistono, in altre parole, dei patrimoni culturali che sono degli autentici beni comuni (e non beni privati), accumulati nei secoli, che diventano anche vantaggio competitivo delle nostre imprese e che generano profitti. Occorre custodirli, perché da loro dipende molto della nostra forza economica e civile presente e ancor più futura.

Un secondo ambito è poi il cosiddetto consumo critico e responsabile. Ciò che ci porta nelle botteghe civili e speciali del commercio equo è soprattutto la ricerca di una esperienza. Per questo è essenziale parlare con chi vi lavora, farsi raccontare le tante splendide storie dei beni, far ‘parlare’ la gente che li ha prodotti; intrattenersi magari a scambiare qualche parola sul nostro capitalismo, o incontrare qualche altro cliente che è lì per fare la nostra stessa esperienza. Il valore di questo consumo non è contenuto soltanto nel bene (e nei rapporti di produzione che esso incarna), ma anche nell’esperienza interpersonale che facciamo quando ci rechiamo in un negozio, in una filiale di una banca, in un mercato. L’etica senza esperienza è solo ideologia.

Infine, dobbiamo prendere coscienza che tutti i beni di mercato stanno diventando beni di esperienza. È questo un paradosso cruciale nell’economia di mercato contemporanea. Da una parte, il mercato ha bisogno di produrre una massa crescente di beni senza troppe varianti, poiché le economie di scala e le esigenze di costo portano a consumi di massa di merci simili per poterli riprodurre, con poche varianti e a basso costo, in tutto il mondo. E così si sono mosse le imprese del XX secolo. Ma queste imprese si trovano oggi a fronteggiare anche una tendenza opposta. La democrazia e la libertà generano milioni di persone con gusti e valori diversi, dove ciascuno sa di essere unico e non omologabile. Ecco allora che le grandi imprese cresciute con la mentalità del consumo di massa, devono ripensarsi profondamente. Da una parte siamo attratti dall’avere anche noi esattamente quel tipo di computer o telefonino status simbol; al tempo stesso, però, vorremmo che il nostro pc avesse qualcosa di unico disegnato sulla mia persona; vorrei, cioè, che l’esperienza che io faccio con quel pc sia unica e solo mia, perché soltanto io sono io. Ecco allora che si aprono prospettive intriganti per il prossimo futuro industriale ed economico. Le imprese di successo, anche su scala mondiale, saranno quelle capaci di mettere assieme prodotti che possono essere venduti su mercati sempre più globali (e oggi la rete consente anche a piccolissime imprese di operare a Madras, Lanciano e a Lisbona), ma soprattutto capaci di coinvolgere il ‘consumatore’ in un’esperienza nella quale non si sente uno dei tanti anonimi e cloni possessori e utenti, ma un pezzo unico. Si capisce allora che ci attende un grande sviluppo di ‘fai da te’ più sofisticati degli attuali, fatti di un intreccio di beni standardizzati, di assistenza tecnica e della nostra creatività nel personalizzare abitazioni, giardini, siti internet, e domani quartieri e città. Se sappiamo guardare dentro l’ambivalente mercato televisivo di ultima generazione, ad esempio, possiamo già trovarvi qualcosa del genere, o almeno tentativi, più o meno felici, di andare in questa direzione.

Quando usciamo di casa per scendere nei mercati, cerchiamo esperienze più grandi delle cose che compriamo. Troppo spesso, però, i beni non mantengono le loro promesse, perché quelle esperienze sono troppo povere rispetto al nostro bisogno di infinito. E così, delusi ma capaci di dimenticare le delusioni di ieri, ricominciamo ogni mattina le nostre liturgie economiche, in cerca di beni, di sogni, di rapporti umani, di vita.

venerdì 15 novembre 2013

Lessico del ben-vivere sociale / 7

Avvenire dell'11 novembre 2013

Rigenerare virtù capovolte

di Luigino Bruni

C’è una legge economica e sociale tanto importante quanto dimenticata. È quella che Luigi Einaudi chiamava la «teoria del punto critico», che egli definiva «fondamentale nella scienza, sia economica sia politica» (Lezioni di politica sociale, 1944) e che attribuiva al suo conterraneo Emanuele Sella (un economista e poeta, che scrisse anche un trattato di economia "trinitaria"). L’idea è l’esistenza di una soglia invisibile ma reale, di un punto critico, appunto, superato il quale un fenomeno da positivo diventa negativo, cambiando segno o natura. La legge del punto critico potremmo oggi applicarla alla finanza, ma anche alle tasse (che quando superano una soglia finiscono per penalizzare gli onesti che le pagano).

Scriveva Einaudi: «È ragionevole che ogni famiglia aspiri al possesso della radio. Ma la radio può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento dell’umanità. Il passaggio dalla radio che allieta e istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa d’imbecillimento dell’umanità è graduale». Se cambiamo l’oggetto del suo discorso e al posto di "radio" (oggi tra i media più creativi e critici) scriviamo "tv", la logica della sua analisi diventa attualissima, e può essere estesa a tutti i beni di comfort.

Nelle prime fasi dello sviluppo, la disponibilità di beni che aumentano il comfort è importante per il benessere. Gli esempi sono tanti. Basti pensare a che cosa ha rappresentato l’invenzione della lavatrice per il benessere delle nostre nonne e mamme. O all’introduzione della pay-tv che ha consentito di vedere la partita a casa al caldo e senza rischi. Qualcosa di analogo è poi accaduto con l’avvento dei social media. Ma sono ormai molti gli studi che ci dicono che gli effetti dei beni di comfort sul benessere cambiano di segno, o di natura, quando si supera un punto critico. Utilissimi sono i cibi precotti quando facciamo tardi e abbiamo venti minuti per preparare la cena; ma se col tempo diventano l’unico cibo presente nel frigo, e ci tolgono la gioia di preparare un pranzo (sano), magari insieme, è probabile che la nostra vita peggiori in qualità.

Ma perché – è questa la domanda cruciale – dovremmo cadere in simili trappole, e non fermarci prima di superare il punto critico? Le ragioni sono molte. Una prima ce la fa intravvedere lo stesso Einaudi: la gradualità. Il punto di svolta si supera un po’ alla volta e senza accorgersene, o accorgendocene troppo tardi. Una seconda spiegazione si chiama salienza: c’è in noi una forte tendenza a vedere di più i beni di comfort e a veder meno beni come quelli relazionali e civili. Nel calcolo del peso relativo che i diversi tipi di beni hanno per la nostra felicità, sovrastimiamo le merci e sottostimiamo i beni non di mercato, che essendo più ordinari e feriali (pensiamo ai rapporti di famiglia, o alla democrazia) li vediamo meno, sono meno salienti – tranne poi accorgerci del loro valore, e del loro prezzo, una volta che li perdiamo. Infine, c’è l’attuale mercato capitalistico: esiste tutta un’industria, sempre più agguerrita, orientata razionalmente a venderci beni di comfort, mentre nessuno (tranne "Pubblicità Progresso") paga per pubblicità che ci incoraggi a investire in beni relazionali o in libertà – interessante è, a questo riguardo, lo «spot impossibile» (è su youtube) ideato da Stefano Bartolini.

C’è poi un altro ambito toccato da quel testo di Einaudi: «Una società di gente ubbidiente diventa presto vittima del tiranno o di impiegati e di mandarini. Chiamavasi "Regola" quella che S. Benedetto, S. Francesco e gli altri grandi fondatori avevano dato agli ordini monastici. Finché i conventi furono poveri, solo gli uomini pronti al sacrificio vi entravano. Così il convento prosperava; e le donazioni dei fedeli affluivano; e molti desideravano dedicare ad esso sé e la famiglia e i beni. Ma la ricchezza partorisce la corruzione. (…) Dappertutto, a distanza di cento anni dalla fondazione, più o meno, si assiste alla medesima vicenda». Qui il superamento di un punto critico produce lo snaturamento di un elemento che nel tempo da buono si trasforma nel suo opposto (sudditanza, accumulazione di ricchezza …). È, questa, un’espressione di un’antica regola aurea: i comportamenti viziosi spesso non sono altro che primitive virtù pervertitesi per aver voluto salvare la forma e non la sostanza che le aveva generate – il prudente risparmio che diventa avarizia, o il giusto profitto che evolve in rendita parassitaria. La fedeltà incondizionata alla lettera del fondatore di movimenti culturali o spirituali, ad esempio, che nella prima generazione era stato un elemento vitale ed essenziale per la nascita e crescita di quelle esperienze, a un certo punto fa innescare un meccanismo auto-distruttivo che impedisce il vitale bisogno di rinnovamento e di riformatori, fino a morire in nome di antiche virtù (fedeltà) tramutatesi gradualmente in vizi (immobilismo). I movimenti come i grandi ordini mendicati francescano o domenicano vivono ancora a distanza di secoli anche perché sono stati capaci di generare molti riformatori, creativamente fedeli.

Esistono, infatti, degli accorgimenti da adottare per evitare, prevenire o quantomeno gestire, queste crisi, che a volte diventano vere e proprie "morti". Una prima regola fondamentale è prendere coscienza individuale e collettiva, e nei tempi ancora felici, che il punto critico esiste. Sapere è il primo antidoto e può salvare, soprattutto se diventa anche regole di governance e accortezza istituzionale. Ma ancora più importante è la presenza, o l’introduzione, di una culturale giubilare. Nel popolo d’Israele ogni cinquant’anni i beni tornavano agli antichi proprietari, i debiti si cancellavano. Se i movimenti e le comunità nati da idealità periodicamente smobilitassero e rimettendo in circolo i beni accumulati nei decenni, e si rimettessero "lungo la strada", lì ritroverebbero quella forza profetica che nel frattempo s’è naturalmente affievolita; e lì, nelle periferie, incontrerebbero tanti in ricerca di quegli stessi ideali che non trovano più nei luoghi della vita ordinaria.
Infine, non è difficile accorgersi che senza ascoltare chi ce lo diceva o gridava alcuni punti critici in Occidente li abbiamo già superati – e quando succede essi scompaiono dall’orizzonte visivo delle civiltà. Li abbiamo superati, o vi siamo molto vicini, nell’ambiente naturale, nei capitali spirituali, nell’uso dell’acqua, nel consumo di suolo pubblico, in molti tessuti comunitari, nell’uso di incentivi, dei controlli, della concorrenza, o nella sopportazione dell’ingiustizia del mondo. Abbiamo di certo oltrepassato il punto critico della vita esteriore (consumi, merci, tecnica), e così ci appare normale la nostra grande carestia e incapacità d’interiorità, di meditazione, di preghiera nella quale siamo precipitati, gradualmente. Stessa sorte è quella capitata all’immunità. La buona conquista moderna di spazi e momenti di vita privata immuni da potenti e da padroni, si è trasformata in una cultura dell’immunità dove non ci si abbraccia e non ci si sfiora più. E così una piena di solitudine sta inondando le nostre città. Ci stiamo abituando a soffrire soli, a morire soli, a diventar grandi da soli in stanze chiuse, vuote di persone amiche, ma piene di demoni che ci rubano i nostri figli.
Parlare insieme di questi grandi temi civili è un primo passo decisivo per prenderne coscienza e per non oltrepassare altri punti critici all’orizzonte. Per fermarci e perfino retrocedere: in alcuni casi, rari ma luminosi, i popoli sono stati capaci di farlo.

mercoledì 13 novembre 2013

Al via il biennio 2013-2015 della Scuola del Legame Sociale

Ancora posti disponibili per iscriversi al nuovo biennio della Scuola del Legame Sociale, promossa dal Centro Servizi Volontariato di Padova.

Sette incontri all'anno, per due anni.
Un percorso formativo e culturale sul significato contemporaneo della relazione e del dono.

Il focus di quest'anno è il lavoro: il lavoro come diritto, dovere, impegno, occasione di relazione, anche intergenerazionale, patto sociale, espressione di creatività.

Oggi, però, la parola lavoro viene spesso associata ad altre parole: stress, assenza, crisi, emarginazione, sopravvivenza ...

Ci sono ancora molti posti di lavoro volontario ... per cercare di trovare, insieme, una risposta al malessere sociale e riscoprire il benessere del lavoro.

Vi aspetto sabato prossimo, 16 novembre, alle ore 9:30, presso la sede del CSV, in Via Gradenigo 10, zona Portello, Padova.

Qui trovate tutte le informazioni del caso:

Lavorare stanca? Il focus del nuovo biennio

Il calendario delle 7 lezioni con laboratorio

L'evento su facebook