"io decido X Albignasego" è il nome del movimento civico che vuol dare la parola ai cittadini di Albignasego, comune della provincia di Padova ... e non solo!

lunedì 15 dicembre 2014

La religione è compatibile con la democrazia?


Cacciari e Zamagni in dialogo a Genova su religione, politica partecipata ed economia. L'attuale situazione è complessa e appare negativa. Quale può essere il contributo di chi ha fede per avviare, al contrario, un percorso positivo?
di Emanuele Pili

Nei giorni scorsi sono ripresi gli incontri di “Cattedrale aperta” promossi dall’arcidiocesi di Genova. In un’atmosfera di grande partecipazione, anche in forza della numerosa presenza della cittadinanza nella chiesa di San Lorenzo, sono intervenuti Massimo Cacciari e Stefano Zamagni, due esponenti di spicco dell’attuale mondo culturale, politico ed economico del nostro paese, intorno ad un tema tanto urgente quanto spinoso qual è quello formulato nella domanda degli organizzatori: la religione è compatibile con la democrazia?
Il primo intervento, affidato a Cacciari, muove dal constatare che la società nella quale viviamo e agiamo è profondamente segnata dall’in-differenza spirituale. In-differenza indica appunto l’assenza di diversità tra le persone, o meglio tra gli individui, sul piano dei valori che donano senso all’esistenza, al di là della falsa promessa consumista, la quale rimane l’unica forma di pensiero dominante. Per trovare la differenza, continua Cacciari, dobbiamo spostarci sul piano prettamente economico: è soltanto lì che avviene la distinzione sociale, interamente valutata su parametri monetari.
Questa è la situazione odierna, ed è per questo che la democrazia è in crisi profonda. Essa, infatti, dovrebbe alimentarsi delle diversità provenienti dalle prospettive di senso presenti nella società. È dunque chiaro che, se il discorso sul senso e sui valori viene consegnato all’in-differenza, la democrazia perde il fondamentale serbatoio dal quale si alimenta. Ecco perché la religione, così come tutte le realtà che di per sé sono portatrici di valori, possono rappresentare delle risorse vitali della democrazia. Tuttavia, Cacciari non nasconde che la pretesa assoluta dei valori religiosi può anche trasformarsi in bramosia di potere, supremazia dell’altro. In questa direzione, però, il relatore individua nella fede cristiana un potente antidoto a questa tentazione: la croce. Essa costituisce il luogo dal quale essere segno di contraddizione, di critica, e dal quale intraprendere qualsiasi iniziativa politica. È tutta lì, in fondo, la garanzia della non ideologicità, e la credibilità, del cristianesimo.

Zamagni, successivamente, introduce la sua riflessione presentando il rapporto tra economia e politica e mostrando come questo abbia avuto un’inversione di rotta. Dapprima, infatti, la politica era vista come la scienza del “fine” da perseguire nella società per “mezzo” dell’economia; oggi, al contrario, con l’avvento di vari fenomeni, come quello della finanziarizzazione dell’economia o della globalizzazione, questa relazione è stata indebitamente invertita: chi detta i “fini” del nostro vivere quotidiano è l’economia, mentre la politica si è ridotta a “mezzo” che si orienta a quei fini.
La democrazia, in altre parole, segue ed è al servizio del mercato, e non viceversa. Questo fatto è di estrema rilevanza ed è proprio qui che la religione è chiamata ad intervenire per contribuire alla riabilitazione della democrazia. Il cristianesimo, in particolare, mettendo al centro la persona e la sua dimensione valoriale e relazionale, è chiamato a coniugare il principio di fraternità con quello di libertà e uguaglianza, avviando un processo che si costituisce nel dono della gratuità, e che poi si sviluppa nello scaturire delle virtù civiche, bene preziosissimo e fondamentale sostegno di una società.

In conclusione, non si può non notare che le analisi dei relatori siano partite da posizioni realiste, che sentono le enormi difficoltà del nostro periodo storico. Cacciari, ad esempio, parla di una situazione “drammatica”, mentre Zamagni evidenzia che, per molti versi, non siamo lontani dal “collasso”. Entrambi, tuttavia, non soccombono di fronte al malessere diffuso, ed anzi non esauriscono le energie per segnalare possibili percorsi e prospettive di uscita, forti del fatto che, come diceva Aristotele, la virtù è più contagiosa del vizio.

(da Città Nuova online del 12 dicembre 2014)

venerdì 12 dicembre 2014

Spiacevoli conseguenze?

Estremamente interessante l'ultimo articolo di Andrea Baranes sulla crescita in Europa.

Spiacevoli conseguenze

Direi che ... non fa una piega. A questo punto mi domando: Junker, la Commissione Europea, il FMI, la BCE e chi più ne ha più ne metta, non hanno forse deciso che siamo in troppi a pesare su questa crosta di terra e, forse, un po' di decrescita farà bene a tutti? Ma forse non l'hanno deciso loro, forse c'è qualcuno, o qualcosa, che tira le fila da dietro le quinte del palcoscenico su cui si rappresenta un mondo alla rovescia. In fondo l'interpretazione competitiva dell'evoluzione è tipica del sistema capitalista, ovvero: si salvi chi può. Direi, a questo punto, che rimangono in campo a fronteggiarsi due filosofie, due economie, due stili di vita, apparentemente simili, ma in realtà assai differenti, sia nelle premesse, sia nelle finalità, sia nei risultati: la "decrescita felice" di Serge Latouche e Maurizio Pallante e la "decrescita infelice" di Jean-Claude Junker e Angela Merkel.

Io tifo per la prima, ovviamente ... e voi?

venerdì 5 dicembre 2014

Cibo e speculazione finanziaria: non restiamo alla finestra

Nel 2008 le speculazioni finanziarie su grano, mais e riso hanno provocato improvvise impennate dei prezzi di questi beni, con gravi conseguenze nei Paesi più poveri e questo fenomeno è ormai divenuto ciclico.
Il punto di vista dei soci di Banca Etica è che il libero mercato va bene, l'interpretazione liberista o neoliberista no. Libera volpe in libero pollaio, è un adagio antico ma sempre efficace per spiegare cosa non va nella ricetta rifiutata.

A parlarne, in sala Zanoni a Cremona, mercoledì 29 ottobre, è stato il “grande comunicatore” dell'istituto di credito di Padova, Andrea Baranes, uno che le cose le sa dire chiare. Un esempio è il suo ultimo libro: "Dobbiamo restituire fiducia ai mercati. Falso!" (Laterza 2014). Egli è presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica e membro del Comitato Etico di Etica Sgr.  Tra l'altro è stato portavoce della Campagna 005 per l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, una questione sulla quale c'è ancora molto da fare, oppure si può ricordare il suo impegno per la riforma della Banca Mondiale. Carte in regola, insomma.

Hanno organizzato l'incontro: Acli, Caritas, Tavola della Pace, Forum Terzo Settore, Cremona nel mondo, Salviamo il paesaggio, Associazione 25 aprile, Rive gauche, Pax Christi, Arci, Ass. Persona ambiente, Amici del dialogo, Non solo noi, Slow food, Filiera corta solidale, Git Banca Etica.

Di elementi e questioni su cui riflettere, la cronaca ne sforna a ciclo continuo. La rivista Valori, negli ultimi mesi, se n'è ripetutamente occupata. Il primo dato che si impone è che troppo cibo è controllato da pochissime mani. Tre facili esempi:
1. 90% della produzione di barbabietola da zucchero è nelle mani di poche multinazionali. 10 di queste (tra cui Monsanto, Dupont, Syngenta, Bayer) sono anche quelle che controllano il 75% del mercato internazionale delle sementi e il 95% dei pesticidi.
2. Un recente rapporto “Agropoli” calcolava che abbiamo il 28% di probabilità di acquistare dai primi 10 trasformatori di prodotti alimentari confezionati e il 75% di acquistare cereali o soia dei 4 giganti del settore (Cargill, Archer Daniels Midland, Bunge, Dreyfus).
3. 1/6 del latte prodotto su scala mondiale nel 2012 è passato nelle mani delle prime 10 società nel settore.

Ovviamente poi i nodi vengono al pettine e così si viene al secondo aspetto cruciale. Se economie di scala e – nel caso della carne – allevamenti intensivi schiacciano i prezzi della materia prima, cosa farà il colosso cinese Shuanghui (oggi si chiama WH Group e si prepara ora a quotarsi in borsa a Hong Kong)? Ha acquistato l'omologo Usa Smithfield Food per 4,7 mil. di dollari. WH è infatti interessato a un modello organizzativo che per produrre la stessa quantità di carne di maiale  spende il 60% di quanto essa costa in Cina (dove prevalgono i piccoli produttori). Corollario: tra chi controlla WH c'è anche la banca d'affari Goldman Sachs, che ovviamente ha profittato dell'attività di supporto al commercio per 1,25 mil di dollari nel solo 2012).
Intanto sui mercati internazionali si registra una forte crescita del prezzo della carne per i consumatori, come effetto sia di una domanda più alta, ma anche del parallelo mercato finanziario dei future legati ai beni alimentari, i cui scambi si sono moltiplicati per nove dal 2002 ad oggi.. Ecco qui l'anello di congiunzione tra mondi che ingenuamente si continua a pensare tra loro separati. Sono sempre più questi “termometri” delle aspettative, a determinare i prezzi, invece che i relativi beni sottostanti e la loro contrattazione.

Stiamo attenti che con il cibo non ci succeda come col debito sovrano: sembrava un problema degli africani, al tempo del giubileo del 2000, mentre oggi siamo noi a guardare sgomenti come nonostante un ripetuto avanzo primario nel bilancio dell'Italia, il nostro debito complessivo continui inesorabilmente a crescere imponendoci sempre nuovi e vani sacrifici, a causa del pagamento degli interessi sul debito.
Pochi argomenti, come quello del cibo, richiamano l'urgenza di non di chiacchierare di finanza etica, ma di passare massicciamente, rapidamente e convintamente agli strumenti alternativi e correttivi. Ci sono e funzionano, perché aspettare?
Expo 2015 a Milano, avrà come tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita.” E' questo il momento giusto, anche nella nostra provincia: raddoppiamo i soci di Banca Etica (in assemblea alle 18.30 nello stesso luogo della conferenza di Baranes), raddoppiamo i depositi, raddoppiamo il nostro utilizzo dei suoi servizi.

Piero Cattaneo (Git di BE provincia di Cremona)

mercoledì 30 luglio 2014

Sulle riforme costituzionali e della legge elettorale

"Non è ragionevole che qualcuno legiferi su sé stesso e sulle proprie prerogative."

Questo è l'incipit del comunicato con cui Leonardo Zaquini ha inteso esprimere il giudizio del comitato "Quorum Zero Più Democrazia" sull'attuale percorso delle riforme costituzionali e della legge elettorale.

Sono stato tra i primi promotori del comitato QZPD e queste parole mi trovano in pieno accordo!

Non ci siamo proprio con la procedura di riforma, e i risultati si vedono!

Non ci siamo proprio a livello di logica costituzionale democratica: non possono essere i rappresentanti dei partiti direttamente coinvolti nella competizione elettorale a decidere le regole a cui dovranno sottostare.

Oggi sono grosso modo tre: PD, FI e M5S.

E già questo "escludere" tutti gli altri fa male ...

Ma domani e dopodomani chi ci sarà? Come si fa a ritagliare una riforma che "dovrebbe necessariamente durare negli anni" per adattarla ad una situazione contingente come sono gli schieramenti politici alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica?

Tantomeno se i loro membri sono stati nominati dagli stessi partiti e non scelti direttamente dal popolo (per nome e cognome).

Meno ancora se la composizione del parlamento che intende modificare la costituzione è alterata da un premio di maggioranza di coalizione, da svariate soglie di sbarramento e da contributi economici variabili in funzione della numerosità ed influenza dei partiti presso la popolazione!

L'attuale Parlamento NON E' RAPPRESENTATIVO DEL PAESE, ma, considerati gli astenuti e le alterazioni alle quote proporzionali, solo di una MINORANZA DEI SUOI CITTADINI!

Si cerca la GOVERNABILITA' ... ma IN NOME DI CHI?

Qui si strumentalizza il popolo per il potere, mentre i partiti dovrebbero essere strumento nelle mani del popolo per il governo della nazione (secondo l'attuale costituzione)!

Se non ci sarà un grande cambiamento nella prospettiva riformista ... vedo tempi sempre più cupi all'orizzonte.

Quando vediamo le nubi avanzare rapide all'orizzonte noi diciamo: verrà la pioggia, quando vediamo il vento piegare gli alberi ed udiamo il mare mugghiare tra gli scogli diciamo: farà tempesta.

Sappiamo discernere il tempo atmosferico e non sappiamo discernere questi nostri tempi!

Che ingenui ... la pagheremo cara ... anzi ... la pagheranno i nostri figli e i nostri nipoti ...

martedì 29 luglio 2014

Un incontro di portata storica

Le scuse del Papa per i pentecostali perseguitati

dal Corriere della Sera di Martedì 29 Luglio 2014
 
Francesco visita la comunità evangelica: «Tra chi denunciava c’erano anche cattolici»

La Chiesa Evangelica della Riconciliazione per adesso è solo una palazzina di cemento grezzo che ha l’aria più di un cantiere che di un luogo di culto. Ma diventa ugualmente il centro del mondo cristiano quando da un altare che, al pari di tutto il resto, sembra ancora precario, papa Francesco pronuncia di fronte a circa 350 fedeli evangelici provenienti da tutto il mondo, un discorso senza precedenti per ciò che avvenne ai tempi del fascismo e delle leggi razziali: «Tra quelli che hanno perseguitato e denunciato i pentecostali, quasi come fossero dei pazzi che rovinavano la razza, c’erano anche dei cattolici: io sono il pastore dei cattolici e vi chiedo perdono per quei fratelli e sorelle cattolici che non hanno capito e sono stati tentati dal diavolo».
È stato questo il momento più importante della seconda visita che papa Bergoglio ha compiuto a Caserta nel giro di soli tre giorni. Stavolta, a differenza dell’appuntamento di sabato scorso, si trattava di una visita privata, nata dalla decisione del Pontefice di recarsi fuori dalle mura vaticane per incontrare il pastore pentecostale Giovanni Traettino - che della Chiesa della Riconciliazione di Caserta è presidente - suo amico dai tempi in cui entrambi vivevano a Buenos Aires.
E infatti di incontro privato si è trattato, anche fuori da gran parte dei protocolli che fanno parte di ogni visita papale. Il Papa è arrivato a Caserta in elicottero intorno alle 10 e 30, atterrando all’interno della Reggia, nell’area riservata alla scuola dell’Aeronautica. Poi in un’auto assolutamente inusuale (una Ford Focus), ha raggiunto l’abitazione di Traettino, incrociando e benedicendo i suoi vicini di casa, che sapevano dell’arrivo del Papa in città, ma non si aspettavano certo che si recasse in una abitazione privata e che quindi passasse accanto a tante persone come se nulla fosse. Con il suo vecchio amico il Pontefice si è intrattenuto per circa mezzora. Incontro privatissimo e personalissimo, al quale, però, è seguito quello con la folta comunità evangelica che per l’occasione si è radunata a Caserta e che ha accolto Bergoglio con un lungo applauso, ripetuto ancora più scrosciante dopo il discorso con il quale ha chiesto perdono.
Ma dall’altare, dietro il quale campeggiava una croce costruita con due semplici assi di legno, papa Francesco ha anche parlato della necessità di «superare i confini tra le Chiese cristiane», e dello Spirito Santo che «fa la diversità nella Chiesa». Ma, ha aggiunto, «lo stesso Spirito Santo fa anche l’unità, così che la Chiesa è una nella diversità: per usare una parola bella, una diversità riconciliante. Lo Spirito Santo è armonia, armonia nella diversità».
«Sulla strada dell’unità - ha detto ancora il Pontefice - ci farebbe bene toccare la carne di Cristo, andare nelle periferie, dove ci sono tanti fratelli bisognosi di Dio, che hanno fame, ma non di pane, bensì fame di Dio. Non si può predicare un Vangelo intellettuale: il Vangelo è verità, amore e bellezza».
Il Papa ha fatto anche un passaggio sull’argomento «setta», termine con cui spesso vengono indicati i pentecostali, spiegando che può essere «una tentazione dire: io sono la Chiesa tu sei la setta», ma, ha aggiunto, «Gesù ha pregato per l’unità».
Quindi se «qualcuno si stupisce che il Papa sia venuto a trovare gli evangelici», lui risponde: «Sono venuto a trovare i fratelli».
Definito dalla sala stampa vaticana «di portata storica» per il suo altissimo valore religioso, l’incontro tra il Santo Padre e la comunità evangelica ha avuto poi un momento di fratellanza a tavola con un pranzo al quale Bergoglio ha partecipato insieme a Traettino (che prendendo la parola durante la cerimonia si era rivolto a lui chiamandolo «fratello Papa») e a un’altra settantina di pastori evangelici non solo italiani ma provenienti anche dall’Argentina, dagli Stati Uniti, da Francia, Spagna, Canada e India.
Tutto italiano, però, il menù, con la pasta all’insalata, l’immancabile mozzarella di bufala, le melanzane a funghetti. E come dolci pastiera e crostata di frutta.
Fulvio Bufi

sabato 24 maggio 2014

Economia: promessa e bestemmia

La Lumsa di Roma è la prima università ad adottare la “promessa di Genovesi” come impegno ufficiale dei laureati in Economia a considerare il mercato non come una lotta e il lavoratore sempre come persona.

Il senso di un giuramento che dissacra i nuovi idoli
di Carlo Cefaloni

Con la conferenza stampa del 20 maggio 2014 presso la sede dell’università collocata nello storico Borgo Pio di Roma, il rettore Giuseppe Della Torre del Tempio di Sanguinetto e il professor Luigino Bruni hanno annunciato, dalla prossima sessione, l’introduzione della “promessa di Genovesi” per gli studenti in discipline economiche che termineranno il percorso di laurea nella Lumsa, la realtà accademica fondata nel 1939 e ora avviata a diventare un punto di riferimento per la riscoperta e la promozione dell’economia civile a livello mondiale.
Lo testimonia la contemporanea conferenza interdisciplinare su teologia ed economia che ha visto, in una serie di seminari diffusi nelle aule delle facoltà, esperti a livello internazionale discutere su un tema centrale: le radici di quella logica prevalente del pensiero economico che sta influenzando ogni aspetto dell’esistenza. La riflessione assume un’attualità stringente nel momento in cui appare avverarsi la profezia del 1921 di Walter Benjamin ne “Il Capitalismo come religione”: «nel capitalismo bisogna scorgervi una religione, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccupazioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. In Occidente, il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo».
Che peso può avere un giuramento per abbattere la nuova «idolatria del denaro»? Non sarà ogni promessa diversa dalla ricerca ossessiva del profitto, una bestemmia intollerabile nel sistema che ha escluso dalla percezione il volto e la “ferita dell’altro”? Non è stato occasione di martirio per i primi cristiani il mancato giuramento all’imperatore come “dio”?
Sul presupposto antropologico della “promessa di Genovesi”, che prende il nome dal campano Antonio Genovesi, padre di quell’economia civile che presuppone la felicità pubblica (non individuale) come fondamento dell’agire umano e quindi economico, abbiamo già ospitato un dibattito su citta-nuova.it a partire dalla proposta lanciata da Bruni sulle pagine del quotidiano Avvenire. Significativo, in tal senso, il consenso sull’introduzione di questo patto solenne più da parte laica (come testimonia l’intervista al professor Lorenzo Sacconi di Trento) che cattolica (una critica esplicita è stata avanzata dal professor Mario Maggioni di Milano sullo stesso Avvenire).

Vita, morte e obbedienza

Alla radice, il gesto pubblico richiesto ai laureati in Economia, che li accosta ai medici che giurano, da Ippocrate in poi, di astenersi «dal recar danno e offesa». Difficile non osservare il “danno” alla vita di milioni di persone e all’intero sistema provocato da tesi come quella iperliberista della “scuola di Chicago” prese come manuale da applicare sulla carne viva di intere comunità.
Questa «economia uccide» ha affermato papa Bergoglio nell’Evangelii gaudium con parole che è impossibile addomesticare, ma solo omettere. Il giuramento, infatti, nella sua essenza, rimanda alla vita e alla morte propria e altrui. Nella formula sacrale imposta ai carabinieri reali della dinastia sabauda il singolo, alla presenza del sindaco dal sottufficiale comandante, che aveva la sciabola sguainata, pubblicamente affermava di «essere fedele a Dio, ed alla Maestà del Re nostro Signore, e di lui successori legittimi: di servirla con onore e lealtà: di sacrificare anche i miei beni e la mia vita per la difesa della sua Real Persona, e pel sostegno della sua Corona e della piena sua autorità sovrana, anche contro i suoi sudditi, che tentassero di sovvertire l'ordine del Governo». Un tipo di obbedienza che re Umberto II dovette sciogliere solennemente prima di partire in esilio dopo il referendum vittorioso della Repubblica. E tuttavia un numero non trascurabile di militi si congedarono dall’Arma per non contravvenire a quella promessa che rimanda ai riti ancestrali depositati nel nostra cultura.
Proporre questa promessa che impegna a guardare «al mercato come un insieme di opportunità per crescere insieme, e non ad una lotta» e non trattare i lavoratori come costo, capitale o risorsa, ma sempre «prima di tutto persone» rappresenta una sfida epocale al tempo della crisi e della precarietà esistenziale e valoriale che il capitalismo “tecno nichilista”, per usare la definizione del sociologo Magatti, ha prodotto all’interno delle stesse categorie di pensiero.

Una scelta drammatica

Una chiave adeguata di lettura, integralmente laica, della “promessa di Genovesi” si può cogliere nel lavoro che Luigino Bruni sta conducendo sulla lettura sapienziale del testo del “patto” e “promessa” per definizione. Come ha scritto su Avvenire, «la Parola biblica ha molte parole di vita da dire alla nostra economia, e quindi alla nostra vita. E può dirci cose che non ha ancora detto, perché da troppo tempo nessuno le ha più chiesto di parlare, di parlarci». La pretesa è molto elevata perché «se è vero che la lettura della Bibbia può arricchire l’economia, è altrettanto vero che nuove domande "economiche" possono far dire a quei testi cose che non hanno ancora detto». Questo nostro tempo aperto alla scelta drammatica tra fraternità e fratricidio è il momento adatto per comprendere, attraverso «la storia degli uomini, significati sempre nuovi delle scritture» per tutti.

(da Città Nuova online del 22 maggio 2014)

lunedì 12 maggio 2014

Il Papa agli studenti: «Non fatevi rubare l’amore per la scuola»

rubrica ""
Fonte "" di Domenica 11 Maggio 2014 
 
Sul sagrato una lavagna, un banco e i libri 
 
«Si vede che questa manifestazione non è “contro”, è “per”! Non è un lamento, è una festa! Una festa per la scuola. Sappiamo bene che ci sono problemi e cose che non vanno, lo sappiamo. Ma voi siete qui, noi siamo qui perché amiamo la scuola!». Trecentomila ragazzi tra piazza San Pietro e via della Conciliazione, il Papa che attraversa la piazza tra striscioni e fazzoletti colorati e dona il suo zucchetto ai ragazzi, sul sagrato c’è una lavagna e un banco con i libri. Una festa promossa dalla Cei e nello stile di Bergoglio, senza recriminazioni o polemiche sulle scuole paritarie e statali. «Per favore, non facciamoci rubare l’amore per la scuola!».
Ecco il messaggio educativo fondamentale, Francesco si rivolge alla piazza a braccio e invita gli studenti a ripetere le sue parole: «Amo la scuola perche ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. L’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. E nell’educazione è tanto importante quello che abbiamo sentito anche oggi: è sempre più bella una sconfitta pulita che una vittoria sporca! Ricordatevelo! Questo ci farà bene per la vita. Diciamolo insieme: è sempre più bella una sconfitta pulita che una vittoria sporca. Tutti insieme! È sempre più bella una sconfitta pulita che una vittoria sporca!».
E ancora: «Penso un proverbio africano tanto bello: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”. Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti! Vi piace questo proverbio africano? Vi piace? Diciamolo insieme: per educare un figlio ci vuole un villaggio! Insieme! Per educare un figlio ci vuole un villaggio!». Perché la scuola «è un luogo di incontro — spiega — non è un parcheggio!».
Francesco ricorda con affetto la sua prima insegnante, «quella donna, quella maestra, che mi ha preso a sei anni, al primo livello della scuola. Non l’ho mai dimenticata!». Perché, racconta, «è stata lei che mi ha fatto amare la scuola. E poi io sono andato a trovarla durante tutta la sua vita fino al momento in cui è mancata, a 98 anni. E quest’immagine mi fa bene! Amo la scuola, perché quella donna mi ha insegnato ad amarla».
Così il Papa racconta ai ragazzi perché vale la pena di amare la scuola. «Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà. Almeno così dovrebbe essere! Ma non sempre riesce ad esserlo, e allora vuol dire che bisogna cambiare un po’ l’impostazione. Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà! La scuola ci insegna a capire la realtà. Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E questo è bellissimo!». E cita l’esempio di un grande educatore come Don Milani: «Se uno ha imparato a imparare — è questo il segreto, imparare ad imparare! — questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: Don Lorenzo Milani». Francesco si rivolge anche ai professori: «Ho sentito le testimonianze dei vostri insegnanti; mi ha fatto piacere sentirli tanto aperti alla realtà, con la mente sempre aperta a imparare! Perché se un insegnante non è aperto a imparare, non è un buon insegnante, e non è nemmeno interessante; i ragazzi capiscono, hanno “fiuto”, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, “incompiuto”, che cercano un “di più”, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti. Questo è uno dei motivi perché io amo la scuola…».

G.G.V.

Il Tempo e lo spazio (secondo Bergoglio)

Dalla Rassegna stampa di Giovedì 08 Maggio 2014,
rubrica ""
Fonte "" di Domenica 11 Maggio 2014
 
Lunedì sera i consigli pastorali parrocchiali di Padova incontreranno i candidati a sindaco della città in un evento che sarà anche possibile seguire in diretta video sul nostro sito internet. Lungo tutte le prossime settimane, inoltre, sono moltissimi i confronti promossi dalle comunità parrocchiali che riepiloghiamo a pagina 5. Non è uno sforzo inedito, anche se qualcuno continua a domandarsi perché le parrocchie si occupino di politica. Forse per strappare qualche impegno concreto, qualche finanziamento, qualche rassicurazione? O magari per agevolare l’elezione di un candidato “amico”?
Nulla di tutto questo, e ce lo ha ben spiegato il segretario della Cei mons. Nunzio Galantino lo scorso fine settimana, definendo ogni collateralismo con i candidati o con i partiti un mortificante spettacolo. «Preferisco – ha detto – che non si realizzino nuove opere o che non si sistemino strutture, se questa deve essere la contropartita diretta o indiretta di un impegno di noi sacerdoti a favore di Tizio o di Caio». È un’idea alta della politica, aliena da compromessi. Anche quelli “piccoli”, fatti a livello locale, dove il politico è parente, amico, parrocchiano; anche se fatti a fin di bene, per un obiettivo che un politico “sensibile” può facilitare… ma a che prezzo?
Galantino indica anche un altro orizzonte d’impegno: è l’incoraggiamento ai laici a fare politica, a «spendersi avendo a cuore il rispetto della persona, della legalità e dell’educazione alla vita buona del vangelo». Qui, e non nella misera contrattazione di spazi di potere o di finanziamenti, c’è un campo di lavoro immenso. Certo, è così vasto che rischia di spaventarci, anche perché non garantisce risultati tangibili. Può venirci però in aiuto papa Francesco che, in un bellissimo passaggio della Evangelii gaudium, ricorda che il tempo è superiore allo spazio: «dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Questo principio permette di lavorare senza l’ossessione dei risultati immediati».
È una lezione che merita davvero di essere meditata e tradotta in pratica: da parte di una politica prigioniera del sondaggio quotidiano, ma anche dalle nostre comunità, perché nessuno va esente dalla tentazione del potere. E noi per primi siamo chiamati a “iniziare processi”: con la formazione, la testimonianza personale, anche con il voto. Senza cadere nel tranello del “risultato subito”, ma senza nemmeno cedere all’apatia del “tanto non cambia nulla”. Da qui al 25 maggio c’è ancora tempo: usiamolo bene.
Guglielmo Frezza

giovedì 3 aprile 2014

Eni: per Scaroni rinnovo o buonuscita?

Il Premier dovrà decidere se confermare l’amministratore delegato per il quarto mandato o sostituirlo. In caso di non rinnovo , Scaroni dovrebbe incassare 8 milioni.

di Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Nel giro di qualche settimana si conosceranno le intenzioni del governo sul rinnovo dei vertici di alcune società a partecipazione pubblica. La più importante è l’Eni, e il Premier dovrà decidere se confermare Scaroni per il quarto mandato o sostituirlo. Per il gioiello dell’industria italiana tempo di bilanci dunque, e su quello del 2013 compare un utile netto di 5.2 miliardi di euro con un prezzo medio del petrolio di 108.7 $ a barile. Non un bel risultato se si calcola che nel 2005, quando Scaroni è arrivato all’Eni l’utile netto è stato di 8,8 miliardi con un prezzo del greggio di circa 54 $ a barile. Addirittura inferiore agli utili dei primi anni 2000 (6 miliardi) quando il greggio era a 30 $. È vero che sono calate le vendite, ma la stessa Eni ha continuato a dichiarare nei suoi bilanci che ogni dollaro di aumento del prezzo del petrolio comporta un utile netto aggiuntivo di 200 milioni di euro per la società. Con il prezzo raddoppiato in 8 anni, dove sono finiti i soldi? Occorre inoltre considerare che nel 2013 c’è stata la cessione ai cinesi di una quota del giacimento in Mozambico per 4.21 miliardi di dollari, e la rivalutazione delle partecipazioni in Artic Russia, ed è proprio la vendita di asset che permette di distribuire alti dividendi. Fino a quando?
L’indebitamento finanziario netto è passato dai 10,4 mld del 2004, ai 15.5 mld del 2012. Eppure nel 2012 l’Eni ha ceduto un pezzo: Snam rete gas.  Questi risultati si sono riflessi nella performance di borsa, deludente rispetto alle grandi società petrolifere internazionali. Non ha fatto peggio la Bp, che ha dovuto scontare il disastro nel Golfo del Messico, o la spagnola Repsol, che ha subito la nazionalizzazione dei suoi giacimenti in Argentina. La Exxon e la Chevron sono vicine ai massimi storici, grazie alla bolla «shale gas», però meglio di Eni sono andate anche le europee Total e Shell. La commercializzazione del gas nel 2013 arriva ad una perdita di 1,5 miliardi. È vero che la domanda è diminuita e la concorrenza aumentata, ma fu l’Eni guidata da Scaroni a rinnovare, nel 2007, quegli onerosi contratti take or pay con la Russia, celebrati come una grande opportunità di business. A causa di quei contratti l’Eni è costretta a pagare alla Russia gas senza poterlo ritirare, per mancanza di domanda. E questo fatto proietterà perdite vicino ai 2 miliardi nel 2014.

Anche il settore raffinazione nel 2013 chiude con una perdita di oltre 600 mln. Poi c’è il tasto dolente della petrolchimica. Il percorso di innovazione avviato da Maugeri a fine 2010 con la chiusura di Porto Torres (il sito che aveva perdite maggiori) e la riconversione a “chimica verde”, redditizia e in grado di assorbire la forza lavoro del sito stesso, si è interrotto. L’Eni è dovuta intervenire perché la società aveva le casse vuote. A rischio chiusura è il sito di Priolo, il più grande d’Italia, e la raffineria di Gela, con la conseguenza che la situazione in Sicilia potrebbe diventare esplosiva. L’Eni controlla il 43% di Saipem, gioiello di ingegneria e costruzioni nel settore idrocarburi. Nel 2013 la perdita è stata di 159 milioni. Mentre sono in corso le indagini per corruzione internazionale il prezzo in borsa è quasi dimezzato.  Ora l’Eni sta pensando di ridurre la sua partecipazione con la fusione di Saipem con Subsea7, una società norvegese molto più piccola, che con l’8% del capitale si prenderebbe la guida operativa e finanziaria della società. Un’ipotesi che porterebbe alla perdita di un altro gioiello dell’industria italiana.

Un settore che ancora tiene è quello dell’Esplorazione e Produzione, ma anche qui i numeri sono in calo. Il 2013 si è chiuso con una produzione di 1.6 milioni barili al giorno, nel 2005 era di 1.7. Oltre il 90% della produzione di petrolio e gas proviene da progetti avviati negli anni 90 e primi 2000. Le ragioni geopolitiche (Libia , Nigeria, Iraq) addotte dalla società per spiegare i risultati deludenti, sono una costante per ogni società petrolifera , che infatti calcola la produzione futura diminuendola del 5%, in modo da poter annunciare al mercato obiettivi abbastanza sicuri. L’Eni questo calcolo non lo fa più.

Uno dei motivi che hanno contribuito al declino della redditività dell’Eni è proprio lo spostamento della produzione dal petrolio al gas, che nel 2013 (i dati non sono ancora noti) dovrebbe aver superato per la prima volta quella del petrolio. Il giacimento scoperto in Mozambico è ingente, ma non c’è mercato locale, trasportarlo costa molto e non esiste nessuna infrastruttura correlata, tutto va costruito e questo alimenta dubbi sulla redditività futura. Preoccupante è anche il declino delle capacità operative della divisione Esplorazione & Produzione. Emblematico è il caso dei continui problemi nell’avvio del giacimento di Kashagan (Kazakhstan). Il più grande giacimento di petrolio scoperto nel mondo negli ultimi 30 anni. Nel 2000, sotto la gestione Mincato, l’Eni si aggiudicò la guida operativa superando giganti come Exxon, Shell, Total. La prima produzione doveva partire nel 2005, poi è continuamente slittata. La società ha inanellato una serie di errori e incidenti che hanno portato il Kazakhstan a togliere all’Eni la guida operativa unica del progetto. Ora il Kazakhstan si rifiuta di riconoscere costi per 40 miliardi di dollari già sostenuti dalle società che fanno parte del consorzio di sviluppo, fra cui l’Eni, che partecipa con il 16,8%.

Ci sono poi le riserve e produzioni di petrolio, drasticamente ridotte a vantaggio di quelle del gas naturale, che hanno una redditività molto più bassa. Scelte che produrranno i loro effetti nel tempo, pesando sui conti. In caso di una caduta significativa dei prezzi del greggio, i risultati del settore Esplorazione & Produzione rischiano di non compensare più le altre perdite.

Certamente Scaroni potrà obiettare che la crisi di questi anni ha pesato su tutto; di sicuro non ha pesato sul suo stipendio, passato da 2,2 milioni ai 6,5 milioni del 2013. Un discorso a parte merita la gestione del personale: negli ultimi anni sono state annunciate assunzioni di giovani (molti in realtà con contratti a termine) a fronte di pesanti tagli di personale italiano mandato in mobilità lunga (7 anni) e con un ricorso vergognoso alla cassa integrazione.

Poi ci sono le numerose inchieste giudiziarie per corruzione internazionale. L’emergere di responsabilità maggiori anche nelle inchieste relative a disastri e bonifiche ambientali potrebbe avere pesanti ricadute sui mercati.  La situazione dell’Eni richiede di essere affrontata con profonda conoscenza dei problemi, poiché ogni settore ha una tale complessità e tecnicalità specifica che rende più complicata la soluzione di tante crisi. Un manager esterno al settore galleggerebbe sui problemi, venendone probabilmente sopraffatto. Non a caso, nell’industria petrolifera mondiale, i manager di vertice vengono coltivati e selezionati all’interno mediante percorsi di formazione che prevedono un’ampia rotazione tra settori diversi o una lunga presenza in corporate – cioè al centro del sistema.  I numeri sono freddi, certamente il Ministro Padoan e il Premier Renzi sapranno leggerli, per poi decidere la cosa giusta. Sarebbe bene anche rivedere il criterio delle buonuscite, che ad oggi vale per tutte le società a controllo pubblico. In caso di non rinnovo del mandato, Scaroni dovrebbe incassare 8 milioni. Uno schiaffo alla miseria.

Guarda l’inchiesta “Ritardi con Eni” andata in onda a Report il 16 dicembre 2012

Questo è il sommario del curriculum di Paolo Scaroni, pubblicato sul sito di Eni:

È Amministratore Delegato e Direttore Generale di Eni dal giugno 2005.
È Consigliere di Amministrazione di Assicurazioni Generali, Vicepresidente non esecutivo del London Stock Exchange Group e Consigliere di Amministrazione di Veolia Environnement. È inoltre nel Board of Overseers della Columbia Business School di New York e della Fondazione Teatro alla Scala.
Dopo la Laurea in Economia e Commercio conseguita nel 1969 all'Università Luigi Bocconi di Milano e dopo una prima esperienza di lavoro di tre anni in Chevron, consegue un Master in Business Administration, presso la Columbia University di New York, e continua la sua carriera in McKinsey. Nel 1973 entra in Saint Gobain, dove svolge numerosi incarichi manageriali in Italia ed all'estero fino alla nomina a Presidente della Divisione Vetro a Parigi. Dal 1985 al 1996 è Vice Presidente ed Amministratore Delegato della Techint. Nel 1996 si trasferisce in Gran Bretagna entrando in Pilkington come Amministratore Delegato fino a maggio 2002.
Dal maggio 2002 al maggio 2005 è stato Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel.
Nel 2005 e nel 2006 è stato Chairman di Alliance Unichem.
Nel maggio 2004 è stato nominato Cavaliere del Lavoro.
Nel giugno 2013 è stato insignito del titolo e grado di Commandeur della Legione d’Onore.

Tratto da: Organigramma Eni: Amministratore delegato Paolo Scaroni

mercoledì 5 marzo 2014

La terra fertile di città: l'esperienza dell’Ass. Nuova Terraviva di Ferrara

Un articolo di Andrea Gandini in uscita presso Madrugada, rivista dell'Ass. Macondo di Bassano del Grappa.

La terra fertile di città: l'esperienza dell’Ass. Nuova Terraviva di Ferrara
Dopo aver lavorato come sindacalista, ricercatore, formatore, docente e consulente, ho deciso a 50 anni di collaborare ad un’”impresa sociale”, anche perché nel frattempo avevo incominciato a scolpire il legno e la pietra. Per me, che ero un “cittadino intellettuale”, abituato a studiare, scrivere e pensare “fare” cose è stato un grande, positivo cambiamento: una scultura, un gioco di legno per i bimbi, curare la terra. E’ stata anche una “terapia” per difendermi dalle difficoltà che si incontrano nel nostro paese ad innovare (non ho smesso di collaborare ad una grande innovazione nella transizione al lavoro dei laureandi/laureati http://www.unife.it/ateneo/jobcentre/pil).
Poi c’era l’ambizione di creare in un’area pubblica agricola di 4 ettari (del Comune di Ferrara) in pieno centro, qualcosa di bello ed attraente. L’area gestita da un’associazione non profit steineriana (www.nuovaterraviva.org) nata per coltivare la terra col metodo biodinamico, consentiva di costruire insieme ad altri questa nuova “sfida sociale” che avesse “semi” di futuro. Biodinamica non è solo assenza di pesticidi, fertilizzare la terra con letame e preparati naturali, seguire il calendario delle semine basato sulla luna e lo zodiaco, ma avere animali per ricostituire il “ciclo chiuso” dell’antica fattoria. Un rispetto per madre Natura che ci consegna un cibo più sano, più nutriente, che si conserva più a lungo.
L’area agricola è stata integrata 10 anni fa da un parco per renderla accessibile ai cittadini, creando un luogo magico specie per i bimbi con casette sull’albero, un ponte tibetano, un cammino segreto, vari giochi tutti di legno (perché i bimbi ne sentono la vitalità, a differenza della plastica), un villaggio degli uccelli, un cosmogramma con 14 alberi, cartelli e varie sculture: un luogo dell’anima. Qui organizziamo ogni anno campi estivi da giugno a settembre per bimbi dai 3 ai 12 anni che possono essere a contatto con la natura, fare laboratori manuali e artistici (acquerello, lana cardata, argilla, orto, maglia, falegnameria, il pane,…) e mangiare cibo preso dall’orto bio e ivi cucinato. Gli animali (api, galline, capre,…l’anno prossimo asini) aiutano i bimbi e la terra ad essere fertili.
Dal 2010 abbiamo avviato un campo conservativo dei 40 più antichi alberi da frutto dell’Emilia-Romagna e dell’Italia (patriarchi) in quanto saranno, prima o poi, alla base della futura frutticoltura (perché più resistenti sia come piante che frutti, bisognosi di minor acqua e manutenzione, col triplo di sostanze organolettiche e anti-ossidanti). Qui teniamo anche corsi d’arte (acquerello, scultura, falegnameria, lana cardata, pedagogia) e di manualità (agricoltura, apicoltura, potatura) e un gruppo di studio settimanale sul vangelo di Giovanni. L’obiettivo è aiutare le persone a consumare di meno e sviluppare di più i propri talenti.
Accogliamo infine giovani e adulti con speciali necessità per un reciproco aiuto.
Il “parco-campagna” è stato realizzato all’insegna della bellezza; cittadini e genitori dei bimbi ci hanno “premiato” triplicando le iscrizioni sia ai campi estivi che come soci (circa 300).
E’ anche un esempio (così ci ha detto Legambiente di Modena) di come si può gestire un’area pubblica agricola in modo polifunzionale rendendola “bella ed attraente”, evitando così che tali aree siano urbanizzate, come spesso avviene quando un campo agricolo (anche di proprietà pubblica) rimane tale.
Piccoli semi che speriamo facciano capire l’importanza di coltivare in modo bio, quanto sia importante l’arte, la manualità, la bellezza, il ritorno alla Natura dei bimbi di città che nascono con una vivissima curiosità per gli altri viventi (O.E.Wilson, studioso della biodiversità la definì “biofilia”), ma oggi minacciati più che mai.
I bimbi di oggi infatti non giocano più tra loro e non sono più a contatto con animali e natura, c’è un abuso di giochi tecnologici, diventano così più pigri, con minor volontà, più grassi, con meno muscoli, meno capaci di giocare e quindi creare. Più deboli nel corpo vitale e, anche a causa di un’alimentazione troppo grassa-salata-zuccherata, più allergici e intolleranti. Dagli studi sulla biografia sappiamo che queste carenze si manifesteranno in età adulta.
Stare nella natura fa scoprire anche quanto sia importante vivere (e mangiare) rispettando le stagioni e la terra: l’humus si è formato in millenni e l’uso dei pesticidi negli ultimi 60 anni ne ha già ridotto la fertilità di un terzo; coltivando così avremo intere aree del pianeta desertificate. Stare nella natura significa anche diventare più “slow”, capire che dobbiamo consumare di meno e “vivere di più” (less is better). Mangiare sano e l’arte/manualità aiutano in questo cammino: chi trova il proprio talento riduce i consumi poiché si concentra in ciò che davvero gli serve e si evolve. Quando mangiamo una piccola mela antica, ingeriamo il triplo di nutrienti e di antiossidanti, è più gustosa, ha meno acqua e dura più a lungo. In Italia abbiamo un vero paradiso: 800 tipi di mele, 400 tipi di pesche, 400 di pere, 3mila cultivar. Sono state spazzate via da una cultura-consumismo che pensava fosse sbagliato avere mele piccole l’una diversa dall’altra. Ora sono tutte uguali, quasi sempre “avvelenate”, meno gustose, più deperibili: costano meno ma valgono meno. E’ questo il progresso? I valori umani vissuti intensamente dai nostri padri e nonni rimangono alla base dell’evoluzione umana; essi vanno metamorfosati senza rinunciare alle scoperte e innovazioni che renderanno la vita più umana, ma dobbiamo anche imparare a fare “per ogni passo nella conoscenza, tre passi nella morale”.
La nostra piccola “impresa sociale” è animata da un intento spirituale e dall’idea che i “beni comuni” pubblici possono essere meglio gestiti se c’è un’associazione non profit privata (ma che opera su linee guida del pubblico). L’intento prevalente rimane quello educativo: adulti che testimonino a bimbi e adolescenti che “piantare alberi, costruire altalene”, come dice un bel libro di Beppe Stoppiglia, li aiuta non poco.

mercoledì 29 gennaio 2014

Comunità - Lessico del ben-vivere sociale / 18

Comunità, una delle parole più ricche, fondamentali e ambivalenti del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità vera è sempre stata una realtà tutt’altro che romantica, lineare, semplice, perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte. Gerusalemme è chiamata ‘città santa’, ma è Caino il fondatore della prima città e il mito fa nascere Roma (e tante altre città) da un fratricidio.
La comunità può essere raccontata senza pericolose riduzioni ideologiche solo se abitiamo e non rifiutiamo questa sua ambivalenza originaria. Ce lo suggerisce la stessa radice latina del termine: communitas, cum-munus, poiché il munus è, ad un tempo, il dono e l’obbligo, ciò che è donato e ciò che deve essere dato o restituito, l’atto gratuito ma anche i munera, cioè i compiti, gli obblighi e le obbligazioni, la gratuità che evolve nel doveroso. E’ questa stessa tensione semantica e sociale che ritroviamo nel bene comune e nei beni comuni, che vivono e non muoiono finché la trama dell’obbligo si intreccia con l’ordito della gratuità. Se invece questa tensione vitale si spegne, e restano solo i (presunti) doni o solo gli obblighi, le patologie relazionali sono sempre sull’uscio (se non già dentro casa), il dono diventa faccenda irrilevante per la vita sociale, e gli obblighi si trasformano in lacci.

Per continuare la lettura dell'articolo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire del 26 gennaio 2014 clicca qui:

La buona città dei diversi e la Babele delle caste chiuse