Servono visioni e scelte di "civil concorrenza"
di Luigino Bruni
Per avere un’idea
di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a
prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la
tv in questa fase pre-elettorale. Espressioni come 'campagna'
elettorale, 'competizione' politica, 'arena', 'campo', sono mutuate
dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto
pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e
alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di
relazioni antagonistiche a 'somma zero', dove le vincite dell’uno
corrispondono alle perdite dell’altro. La metafora più potente,
anche per la sua lunga storia, è quella economica, che porta a
leggere la dinamica politica come la competizione nei mercati. C’è
una lunga tradizione di pensiero che ha visto la politica sulla
falsariga del mercato, e non sempre con risultati negativi o
incivili. Joseph Schumpeter, negli anni Quaranta del secolo scorso,
scopriva con tristezza e profeticamente che i politici altro non sono
se non «mercanti di voti». Da quella intuizione è poi scaturita
tutta una teoria politica 'competitiva' dove i diversi partiti
lottano tra di loro per conquistare il voto dell’elettore al fine
di raggiungere il potere. I partiti sarebbero così nulla di
sostanzialmente diverso dalle imprese, poiché le imprese
(capitalistiche) massimizzano i profitti economici e i partiti
massimizzano i profitti politici (voti). Dietro questo approccio
economico-competitivo alla politica (il mercato politico) si cela
l’idea-ideologia che il mercato sia il principale luogo e strumento
di libertà e di eguaglianza, e che lo è tanto più quanto più
alimenta la concorrenza. Questa visione 'competitiva' della
democrazia è molto complessa quando si esce dall’astratto e ci si
cala dentro la prassi politica, anche perché, a differenza dei
mercati civili, le coalizioni tra partiti una volta raggiunto il
potere lo possono usare a proprio vantaggio, scaricando, almeno in
buona misura, i costi sulle minoranze meno dotate di voce
politica.
Questa logica diventa poi devastante se chi la
pratica ha in mente un’idea errata di mercato, come è, purtroppo,
quella che domina da qualche decennio in Italia, e sempre più in un
mondo governato dalla finanza speculativa 'a somma zero'. L’idea di
competizione economica che possiamo evincere dalle azioni e dalle
parole di molti leader politici, sarebbe soltanto bizzarra se non
fosse anche tragica. Un’idea che avrebbe fatto rabbrividire anche
gli economisti classici fin da Adam Smith, per non parlare dei
massimi teorici della democrazia, da Mill a John Rawls. Il mercato
viene infatti immaginato come il luogo dove l’impresa Rossi ha come
scopo battere l’impresa concorrente Bianchi. Qui la competizione,
il cumpetere, diventa un cercare (petere) insieme
(cum) di vincere la stessa gara, ma non implica alcuna azione
congiunta, nessuna forma intenzionale di cooperazione. È questa
un’idea deformata sia di competizione sia di mercato, poiché il
buon mercato, o 'la civil concorrenza', nelle parole di Carlo
Cattaneo, è esattamente l’opposto: l’impresa Rossi non ha come
scopo 'battere' l’impresa Bianchi, ma soddisfare al meglio i
bisogni dei consumatori; e se l’impresa Bianchi è meno capace di
Rossi di soddisfare quei bisogni, o migliora o esce dal mercato. È
questa la natura più profonda della competizione di mercato, che è
quindi una faccenda cooperativa, un’azione congiunta. Quindi, se
qualcuno ama usare la categoria di competizione per descrivere la
dinamica politica, che almeno si orienti verso la sua versione
migliore, più profonda e civile. In realtà, quando nei mercati e
nella politica gli attori non hanno più l’energia morale e
l’entusiasmo civile di guardare avanti e insieme nella stessa
direzione, di proporre qualcosa di importante ascoltando e parlando
con i cittadini, si guarda 'accanto', e così rischia di prevalere
uno sguardo miope e orizzontale orientato a battere il concorrente,
il rivale e l’avversario.
E questo è un segnale di
malessere etico e antropologico profondo, malattia da curare con
fermezza. La concezione odierna, ed errata, del mercato politico
allora non è altro che un segnale (forse il maggior segnale, come
già percepiva Schumpeter) che si è logorato un modo di stare al
mondo e di cooperare. Dobbiamo saper immaginare una nuova stagione
esplicitamente cooperativa, se vogliamo veramente arrestare quel
declino già da tempo iniziato, che è molto più profondo del debito
e del Pil. Una strada, una volta chiusa questa fase elettorale e
assegnato a ciascuno il ruolo e il peso stabiliti dal voto popolare,
è dare vita a un processo condiviso e cooperativo, analogo a quello
che ha ispirato la Costituzione repubblicana, frutto di una ritrovata
concordia che riuscì a trasformare le macerie della guerra in un
nuovo Patto civile. I giorni che ci separano dalle elezioni possono
insomma essere non solo il tempo di una battaglia di idee, ma anche
l’inizio, un primo passo, di un lungo processo per il quale sarà
necessario il contributo delle migliori donne, uomini e giovani della
società civile, verso nuove sintesi. Un primo passo, affinché sia
un buon passo, richiede però fin da ora la capacità di coltivare le
ragioni della concordia e del consenso, un cercare insieme. Occorre
avere il coraggio di mettere in primo piano l’immaginazione e la
proiezione verso il futuro da costruire, anziché esaurire tutte le
energie nell’affanno di garantire il controllo del presente.
(da Avvenire
del 6 gennaio 2013)© riproduzione riservata