Attraverso la newsletter di "Rifondazione Comunista" ci giunge un articolo a firma Marco Bersani e pubblicato sul sito di Attac Italia:
Mi permetto di estrarre, per comodità nostra, i brani che ci aiutano di più a comprendere i poco trasparenti meccanismi della finanza. Eccoli qua:
Dodici milioni di persone affidano i
propri risparmi a Poste Italiane, attraverso i libretti di risparmio e i
buoni fruttiferi. La massa di questi risparmi viene raccolta dalla
Cassa Depositi e Prestiti, che, fin dalla sua nascita, la utilizzava per permettere agli enti locali territoriali di
poter fare investimenti con mutui a tasso agevolato. Nel 2003, la Cassa
Depositi e Prestiti è stata tramutata in società per azioni e nel suo
capitale societario sono entrate (30%) le fondazioni bancarie. Da
allora, la Cassa Depositi e Prestiti si è progressivamente trasformata
in una merchant bank che continua a finanziare gli enti locali, ma a
tassi di mercato e che investe in diversi fondi con finalità di
profitto. La massa di denaro mossa annualmente dalla Cassa Deposti e
Prestiti è enorme: circa 250 miliardi di euro, con una liquidità
disponibile di quasi 130 miliardi di euro; si tratta di gran lunga della
“banca” più solida e nello stesso tempo più “liquida” del Paese.
La natura di bene comune della Cassa
Depositi e Prestiti risulta evidente dalla provenienza del suo ingente
patrimonio, che per oltre l’80% deriva dalla raccolta postale, ovvero è
il frutto del risparmio dei lavoratori e dei cittadini italiani.
Tale natura è del resto anche giuridicamente sostenuta dall’art.10 del
D. M. Economia del 6 ottobre 2004 (decreto attuativo della
trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni )
che così recita: «I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti
rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di
diritto pubblico, costituiscono servizio di interesse economico generale».
Nonostante ciò, con la
trasformazione in SpA della Cassa Depositi e Prestiti, l'attività di finanziamento degli investimenti degli enti pubblici deve avvenire assicurando un
adeguato ritorno economico agli azionisti. Come recita l’art. 30 dello
Statuto della società «Gli utili netti annuali risultanti dal bilancio
(..) saranno assegnati (..) alle azioni ordinarie e privilegiate in
proporzione al capitale da ciascuna di esse rappresentato». E la
relazione annuale societaria, relativa al 2010, dichiara con
soddisfazione la chiusura del bilancio con un utile netto di 2,7
miliardi di euro, nonché il fatto di aver garantito agli azionisti,
dall’avvenuta privatizzazione ad oggi, un rendimento medio annuo
superiore al 13%. Se l’unità di misura delle scelte di investimento è la
redditività economica delle stesse, è evidente il conflitto di interesse rispetto alla loro qualifica di servizio di primario
interesse pubblico.
Paradossale appare il fatto che siano state proprio le fondazioni
bancarie quelle chiamate a partecipare al capitale sociale della nuova
società per azioni. Le fondazioni bancarie sono spesso i principali
azionisti delle banche di riferimento, con le quali la Cassa Depositi e
Prestiti fino ad allora competeva, fornendo agli enti pubblici risorse
finanziarie a condizioni più convenienti. Sarà forse un caso che da
allora, attraverso una scelta di elevati tassi di interesse sui mutui
accesi, le condizioni di finanziamento privilegiato da sempre rivolte
agli enti pubblici siano progressivamente svanite, spalancando le porte
degli stessi all’indebitamento coi mercati finanziari?
Se più dell’80% delle entrate della CDP SpA deriva dal risparmio dei
lavoratori e dei cittadini, si pongono problemi rilevanti di diritto
all’informazione e di diritto alla partecipazione alle scelte di
destinazione degli investimenti. Se infatti per 150 anni la destinazione
al finanziamento degli investimenti degli enti locali territoriali era
scontata (e tacitamente condivisa dai cittadini “prestatori”), con la
trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni nasce
una questione ineludibile di democrazia partecipativa: i lavoratori e i
cittadini devono avere voce sulla destinazione dei soldi prestati e
partecipare all’indirizzo delle scelte sugli investimenti da
intraprendere, ad esempio ponendo vincoli di destinazione a finalità
sociali ed ambientali degli stessi.
I temi della riappropriazione sociale dell’acqua e dei beni comuni da
una parte e di una nuova finanza pubblica dall’altra sono fra loro
strettamente connessi: chiedendo la ripubblicizzazione del servizio
idrico integrato, il movimento per l’acqua afferma le necessità di una
nuova fiscalità generale e di nuovi strumenti di finanza pubblica; allo
stesso modo, la rivendicazione di una nuova finanza pubblica rimanda
immediatamente a beni comuni da affermare come indisponibili al mercato e
a servizi pubblici di qualità da garantire a tutte e tutti. Riappropriarsi collettivamente dei beni comuni, ivi compreso il denaro pubblico, diviene la condizione indispensabile per poter immaginare un'uscita dalla crisi che renda effettiva la
ripubblicizzazione di beni comuni come l’acqua, realizzando
concretamente quanto deciso dalla maggioranza assoluta del popolo
italiano con la straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011.
Fra pochi giorni sarà passato un anno da quella straordinaria affermazione di civiltà che fu il referendum sui beni comuni: come pensiamo di celebrarlo?
Nessun commento:
Posta un commento